L’uomo e il simbolo

 

“si potrebbe considerare l’uomo come un animale di una specie superiore

 

il quale crea filosofie e poemi allo stesso modo che

 

il baco da seta produce il suo bozzolo e l’ape costruisce gli alveoli”

 

(Cassirer 2009, 73)

 

 

 

La realtà psichica nell’essere umano è fondamentalmente una realtà simbolica. Pensiero, affetti e percezioni che la compongono non sono rappresentazioni di essi stessi  ma derivati di un processo di elaborazione che sposta su di un piano simbolico stimoli ed esperienze che compongono il vissuto dell’individuo.

 

La realtà vissuta dall’essere umano, rimanda ad un ‘universo simbolico’ costruito dal singolo attraverso processi dinamici ed in continuo divenire che danno significato alle sue esperienze. Questa costruzione di significato emerge da una rielaborazione simbolica dei vissuti in cui l’essere umano costruisce, a partire dalle esperienze in cui è immerso, un universo simbolico attraverso il quale interpreta e si relazione con se stesso e con il mondo. Scrive il filosofo tedesco Ernst Cassirer[1]: “Il simbolo non è il rivestimento meramente accidentale del pensiero, ma il suo organo necessario ed essenziale. Esso non serve soltanto allo scopo di comunicare un contenuto concettuale già bello e pronto ma è lo strumento in virtù del quale questo stesso contenuto si costituisce ed acquista la sua compiuta determinatezza. L'atto della determinazione concettuale di un contenuto procede di pari passo con l'atto del suo fissarsi in qualche simbolo caratteristico” (Cassirer 1996, vol. 1 – Intr. II).

 

 

 

Scrive lo stesso Cassirer che l’uomo, proprio per questa caratteristica precipua di costruire il mondo attraverso i suoi processi di simbolizzazione dovrebbe essere denotato come un animal symbolicum: “(...) L’uomo non può più sottrarsi alle condizioni di esistenza che lui stesso si è creato; egli deve conformarsi ad esse. Non vive più in un universo soltanto fisico ma in un universo simbolico. Il linguaggio, il mito, l’arte e la religione fanno parte di questo universo, sono i fili che costituiscono il tessuto simbolico, l’aggrovigliata trama della umana esperienza. (...) Queste forme sono essenzialmente forme simboliche. Invece di definire l’uomo come un animal rationale si dovrebbe dunque definirlo come un animal symbolicum. In tal guisa si indicherà ciò che veramente lo caratterizza e che lo differenzia rispetto a tutte le altre specie e si potrà capire la speciale via che l’uomo ha preso: la via verso la civiltà.” (Cassirer 2009, 80-81).

 

 

 

L’essere umano, in questa definizione di ‘animale simbolizzante’ si connota fin da subito con una funzionalità che lo contraddistingue nel suo relazionarsi con l’ambiente, quella che gli permette di farlo attraverso la costruzione di significati simbolici. Il simbolo permette all’uomo di passare dal piano del concreto a quello del concetto, con cui interpretare l’esperienza e costruirsi delle coordinate di significato attraverso le quali orientarsi nei propri vissuti. Il dinamismo psichico è mosso e si muove attraverso un rete di simbolismi, derivati da un processo che si alimenta dal mondo delle esperienze, dal mondo immaginativo, dalle rielaborazioni intrapsichiche che vengono effettuate sui vissuti personali. I simboli sono quindi “prodotti naturali e spontanei”(Jung 1983, 22) nell’essere umano.

 

 

 

Uno stesso stimolo può essere elaborato dall’essere umano a diversi livelli tra loro interconnessi e interagenti: uno meramente percettivo che elabora gli stimoli sensoriali, restituendo un’immagine oggettivata umanamente del mondo[2] ed un altro frutto di una elaborazione simbolizzante che dota di nuovo senso l’esperienza con cui si entra in contatto. Scrive Cassirer che: “Inserito fra il sistema ricettivo e quello reattivo (ritrovabili in tutte le specie animali), nell’uomo vi è un terzo sistema che si può chiamare sistema simbolico (Cassirer 2009, 79).

 

 

 

E’ stato il biologo e filosofo tedesco Johannes Johann Von Uexküll (1864 – 1944) ad introdurre in biologia il concetto di mondo-ambiente (Umwelt). Ogni specie animale vive chiusa nel proprio mondo-ambiente, chiuso rispetto ai mondi-ambiente di altre specie anche se connesso con essi. Per questo Cassirer scrive che: “ogni organismo è, per così dire, una monade che ha un suo mondo perché vive una propria, specifica esperienza” (Cassirer 2009, 77). Quindi come scrive  Von Uexküll: “nel mondo della mosca, troveremo solamente una realtà vista secondo una prospettiva da mosca, nel mondo del riccio di mare solamente una realtà vista secondo una prospettiva da riccio di mare” (citato in: Cassirer 2009, 78).

 

 

 

Il mondo-ambiente dell’essere umano è creato dalla sua peculiare caratteristica di simbolizzare le esperienze, creando  una prospettiva tipicamente umana con cui vedere la realtà. Questa prospettiva – per quello che sappiamo attualmente - tipicamente umana è la conseguenza di un processo che ‘costruisce’ una visione del mondo all’interno di ogni singolo essere umano, processo che segue delle forme costruttive proprie della specie umana, fortemente influenzato nei contenuti da vissuti personali e dalla cultura di appartenenza.

 

 

 

Antropologia simbolica

 

 

 

L’antropologia simbolica rappresenta uno dei movimenti più fecondi e innovativi,  all’interno delle discipline antropologiche, della seconda metà del XX secolo. Si sviluppa attorno agli anni ’70 del novecento attorno alle opere di antropologi come Clifford Geertz,  Victor Turner, Mary Douglas,  i quali, concentrano le loro riflessioni sul simbolo e il simbolico quale chiave di accesso per l’interpretazione dei differenti fenomeni culturali.

 

Questo approccio segna una svolta, un ‘cambiamento di paradigma’ (Kuhn 2009) all’interno dell’antropologia e delle scienze umane in generale, allontanandosi da una rigida impostazione positivista, che le voleva costruite sul modello delle scienze ‘naturali’, adottandone il metodo scientifico,  per riscoprire la ricchezza delle profondità che si schiudono approcciando l’essere umano nella sua dimensione simbolica. Come scrive l’antropologo Roberto Malighetti: “Il senso della riscoperta geertziana della dimensione ermeneutica rappresenta una risposta alla crisi delle scienze umane, un processo di riscoperta e di riappropriazione della ricchezza del significato e del simbolismo” (Malighetti 2001, 16).

Il movimento dell’antropologia simbolica interagisce con  differenti discipline o correnti di pensiero che si interessano dell’essere umano quali fenomenologia, strutturalismo, sociologia, linguistica, semiotica, ermeneutica (cfr Archetti in Cimmino e Santambrogio, 2004). Confluisce nel movimento dell’antropologia simbolica anche la prospettiva interpretativa che prende il via  nel 1973, anno di pubblicazione dell’opera di Geertz, ‘Interpretazione di culture’.

 

La prospettiva dell’antropologia simbolica assume che la cultura e la vita sociale dell’uomo sono il frutto di una ‘negoziazione di significati’ (Archetti in Cimmino e Santambrogio, 2004, 2) ed è l’interpretazione di questi significati, in chiave simbolica, la chiave di accesso alla comprensione della singola esperienza inserita nella specifica cultura, rappresentata da Geertz con la metafora di un testo da essere interpretato con un approccio ermeneutico (cfr Geertz 1998) o da Turner con l’immagine di un palcoscenico di un teatro dove vengono rappresentate le interazioni sociali degli attori coinvolti (cfr Turner, 1986).

 

 

 

Victor Turner[3]: l’azione sociale dei simboli rituali

 

(…) il simbolo rituale diventa un fattore di azione sociale,

 

una forza positiva in un campo di attività.

 

(Turner 2001, 44)

 

 

 

Victor Turner nella sua opera ‘La foresta dei simboli’ affronta la tematica del simbolo all’interno di uno studio sulla complessa ritualità della popolazione Ndembu nello Zambia nordoccidentale.

 

L’analisi dell’autore si concentra dunque in una particolare espressione simbolica che è quella relativa ai simboli rituali[4]. Il rito è definito da Turner come un comportamento codificato che fa riferimento a credenze in entità o poteri mistici, di cui il simbolo rappresenta “l’unità fondamentale della struttura” (Turner 2001, 43).

 

Sui riti c’è una pregevole opera, di inizio novecento, di Arnold Van Gennep[5] intitolata ‘I riti di passaggio’ più volte citata nelle opere di Turner. Van Gennep identifica ed esegue una classificazione dei riti che non è necessario qui ricordare (basti pensare alle categorie citate di riti simpatici e riti contagiosi, riti positivi e riti negativi, riti diretti e riti indiretti, riti animisti e riti dinamisti). Le suddivisioni proposte appaiono essere trasversali e contenute in maniera diversa in differenti tipologie di riti quali ad esempio riti di iniziazione, riti di purificazione, riti di consacrazione, riti di esorcismo, riti di inaugurazione, riti profilattici, riti propiziatori, etc., visti per la maggior parte  da Van Gennep come varianti di riti di passaggio in quanto celebrazioni di un passaggio da uno stato ad un altro. I riti di passaggio sono riti che sanciscono, delineano, concretizzano il passaggio tra due stati dell’essere di una persona. Nei riti di passaggio è sempre presente una condizione “pre” e una condizione “post” della persona, due stati dell’essere, due condizioni esistenziali differenti con il rito di passaggio nel mezzo che serve da ponte tra la due realtà.

 

 

 

La vita dell’essere umano è caratterizzata da passaggi fondamentali da uno stato sociale ad un altro, che portano in sé il bisogno di una ristrutturazione globale dell’individuo e di un riconoscimento sociale del nuovo status assunto. Scrive Francesco Remotti[6]  nell’introduzione all’edizione italiana del testo di Van  Gennep: “Dalla nascita alla morte – anzi, prima ancora della nascita e anche dopo la morte – l’individuo non fa altro che passare da una condizione a un’altra, da un compartimento a un altro: in una serie ininterrotta di occasioni determinate l’individuo lascia una stanza per entrare in un’altra di quella grande casa che è la società cui appartiene. Da un punto di vista sociale vivere, per Van Gennep, è un processo continuamente scandito dai movimenti di separazione e di aggregazione, di uscita e di entrata. Vivere è un continuo morire e rinascere” (Van Gennep 2007, XVII). A tal proposito scrive lo stesso Van Gennep: “E’ il fatto stesso di vivere che rende necessario il passaggio successivo da una società speciale ad un'altra e da una situazione sociale ad un'altra, cosicché la vita dell’individuo si svolge in una successione di tappe nelle quali il termine finale e l’inizio costituiscono degli insiemi dello stesso ordine: nascita, pubertà sociale, matrimonio, paternità, progressione di classe, specializzazione di occupazione, morte. A ciascuno di questi insiemi corrispondono cerimonie il cui fine è identico: far passare l’individuo da una situazione determinata a un’altra anch’essa determinata” (Van Gennep 2007, 7)

 

 

 

Sono tradizionalmente i riti di passaggio che accompagnano, e ‘regolano’ questi passaggi da uno stato ad un altro. Il rito di passaggio ha la funzione di rendere meno traumatico per la società, il passaggio di stato di un individuo, nasce dal bisogno di assicurare la coesione e la continuità di una società nonostante il mutamento degli individui che la compongono. Scrive Francesco Remotti che: “Ogni società si preoccupa di fare in modo che il mutamento degli individui, e i loro passaggi da una condizione a un’altra avvengano senza che siano compromesse la coesione e la continuità sociale” (Van Gennep 2007, XVII). Per questo il rito è codificato all’interno della sua cultura di riferimento, che lo usa per contrastare le forze centripete messe in movimento dal cambiamento di stato degli individui che vi appartengono. Le perturbazioni all’equilibrio omeostatico a cui tende una società tradizionale, sono contrastate codificando la trasformazione, accompagnando l’individuo all’interno di percorsi rituali, programmati, riconosciuti, definitivi. Questa funzione sociale si sovrappone ad un'altra più strettamente legata alla crescita personale dell’individuo. Affrontare un nuovo stato esistenziale, sconosciuto, lasciandosi dietro di sè la confortevole situazione di una realtà divenutaci familiare è sempre fonte di angosce esistenziali. Per questo le società tradizionali, rifacendosi alle grandi mitologie fondative, hanno codificato una serie di riti di passaggio che accompagnano l’individuo attraverso le tappe fondamentali della sua esistenza.

 

 

 

Van  Gennep distingue nei riti di passaggio, tre momenti particolari che sono rappresentati spesso da altrettanti riti, all’interno del rito. Ci sono quindi dei riti di separazione (o preliminari) che sanciscono e sottolineano il distacco dalla condizione precedente dell’individuo, dei riti di margine (o liminari), rappresentati da un periodo di sospensione, da una stato di mezzo in cui l’individuo non possiede più la condizione precedente e non a ancora acquisiti la nuova e dei riti di aggregazione (o postliminari) in cui l’individuo viene riammesso nella società, con la nuova condizione che il rito di passaggio ha celebrato.

 

 

 

La creatività simbolica nella fase liminare del rito

 

 

 

Turner evidenzia la fase liminare (da latino limen = soglia) del rito come quella più creativa, dal punto di vista simbolico, di tutto il processo rituale. Gli individui sottoposti al rito, attraversando questa fase non appartengono più alla condizione sociale preesistente e non sono ancora stati aggregati alla nuova condizione verso cui il rito li accompagna. Sono in una fase di “invisibilità strutturale” (Turner 2001, 126) in cui ogni classificazione sociale è sospesa. C’è una morte simbolica dello status preesistente e per questo, evidenzia l’autore, i simboli che rappresentano questa fase richiamano spesso a tematiche di morte, decomposizione, catabolismo. Nel rito c’è sempre un ‘vecchio’ che deve morire per poter far posto al ‘nuovo’ che il rito celebra. Il carattere di irreversibilità che hanno i riti di passaggio comporta il fatto che il ponte che viene attraversato crolla alle spalle, la porta che si è oltrepassato con il rito chiude inesorabilmente i battenti dietro la schiena dell’iniziato. Solo questa irreversibilità schiude completamente lo spazio al nuovo. La morte di quello che era, consegna a quello che sarà, prepara il terreno per le nuove esperienze, dà fertilità ai semi del divenire

 

 

 

Gli individui sottoposti al rito, i neofiti, non hanno più “status, proprietà, insegne, abiti secolari, rango, posizione nella parentela, niente che li delimiti strutturalmente dai loro simili” (Turner 2001, 129). Sono completamente affidati e in balia agli istruttori al rito che possono sottoporli ad ogni forma di vessazione, privazione, umiliazione, sofferenze. L’istruzione dei neofiti alle conoscenze legate al nuovo status sociale,  passa attraverso una loro destrutturazione che consente di costruire la nuova condizione sociale con cui usciranno dal rito: “La passività dei neofiti nei confronti dei loro istruttori, la loro malleabilità, accresciuta dalla sottomissione alle prove, il loro essere ridotti ad una condizione uniforme sono i segni di un processo, mediante il quale essi vengono frantumati per essere interamente rimodellati e dotati di nuovi poteri per affrontare la loro nuova posizione nella vita” (Turner 2001, 132).

 

 

 

In questa fase, evidenzia l’autore, i legami dei partecipanti il rito si modificano in senso egalitario, c’è una sospensione dello status sociale degli individui per cui le differenze evidenti fino ad allora vengono messe da parte e gli individui entrano in una ‘communitas’, una comunità transitoria caratterizzata da una uguaglianza di condizione, da legami non strutturati tra i membri del gruppo. La communitas ha degli aspetti di grande generatività e creatività in quanto lo stato di sospensione da una precisa posizione sociale, libera energie e capacità cognitive, affettive, creative che possono divenire generatrici di simboli, metafore, miti, riti. La fase transitoria del rito “spezza, per così dire, la crosta del costume e dà via libera alla speculazione” (Turner 2001, 138) In questa fase le produzioni simboliche possono quindi assumere anche una funzione antistrutturale e creativa e non solo quella regolatrice a livello sociale che verrà evidenziata più sotto. L’aspetto creativo si evidenzia in particolar modo in quelli che l’autore ha identificato come riti della crisi che intervengono quando nella società irrompono degli eventi disgreganti e potenzialmente distruttivi, quali dei conflitti irrisolvibili o degli eventi imprevedibili.  In questi casi, la fase liminale libera delle energia creatrici che possono essere messe al servizio di una riparazione del tessuto sociale strappato, verso la ricostituzione di un nuovo ordine, di una nuova omeostasi della struttura sociale. La fase liminale in questo caso sembrerebbe attivare quelle capacità autoriparatrici, auto poietiche[7] che caratterizzano ogni sistema complesso.

 

Un caso particolare evidenziato da Turner è quello dei fenomeni liminoidi riscontrabili in realtà sociali complesse come quella occidentale odierna, che si inseriscono in un movimento di contrapposizione al valori ufficiali della cultura di riferimento (esattamente al contrario di quelli liminali che invece ne sono espressione in quanto direttamente derivati da essa). I fenomeni liminoidi, slegati dal controllo sociale, divengono espressione di originalita individuali, che alimentano una spinta interna verso il cambiamento, la ristrutturazione, la messa in discussione di certi valori/fenomeni  tradizionali. (cfr Turner 2001a)

 

 

 

Il simbolo: la più piccola unità del rituale

 

Il simbolo viene definito da Turner, “ciò che per generale consenso è considerato naturalmente capace di prefigurare, rappresentare o rievocare qualcosa perché possiede qualità analoghe o per un’associazione di fatto o di pensiero” (Turner 2001, 43) quindi oggetti, attività, rapporti, eventi, gesti, unità spaziali che in un contesto rituale rimandano ad un significato altro.

 

Espresso all’interno di un rito il simbolo rappresenta per l’autore “la più piccola unità del rituale, che contiene tuttavia le proprietà specifiche del comportamento rituale; è l’unità fondamentale della struttura specifica in un contesto rituale.” (Turner 2001, 43) o citando un altro passaggio di Turner in cui esprime lo stesso concetto con una felice metafora: “Ogni tipo di rituale può essere considerato come una configurazione di simboli, una sorta di ‘partitura’, nella quale i simboli sono le note.” (Turner 2001, 75)

 

 

 

Nel definire il concetto di simbolo troviamo il pericolo fondato di una confusione concettuale, alimentata dal fatto che nell’uso lessicale corrente, la parola ‘simbolo’ viene usato in maniera sostitutiva di altri termini che rimandano però a concetti differenti quali ad esempio allegoria, analogia, emblema, metafora, segno. Viene quindi veicolata una intercambiabilità tra vari termini che alimenta confusione nel cogliere appieno il concetto di simbolo e non aiuta a collocarlo nella dimensione che gli compete. Per una chiarificazione tra i vari termini visti sopra si rimanda ad esempio al testo di Jean Chevalier ed Alain Gheerbrant, Dizionario dei Simboli, edito in Italia da BUR nel 2005.

 

 

 

In particolare Turner evidenzia le differenze concettuali tra ‘segno’ e ‘simbolo’ in quanto termini spesso usati come sinonimi ma che rimandano a delle matrici di significato differenti. Il segno è una convenzione arbitraria che attribuisce un significato convenzionale ad una figura, in cui significante e significato (nella concezione saussuriana) non sono legati tra loro da un ‘dinamismo organizzatore’ come nel simbolo. Scrive Cassirer che : “i segni hanno carattere operativo mentre i simboli hanno un carattere designativo e rappresentativo” (Cassirer 2009, 90).

 

 

 

Il simbolo ha una componente evocativa, come il segno, ma la corrispondenza non è convenzionale, rimanda ad un significato che si schiude solo quando si guarda alla totalità. Symbolon era nell’Antica Grecia, un oggetto (un anello, una moneta, una ceramica o altro) che venivano divisi in due e usati come segno di riconoscimento tra i portatori delle due parti e il termine symballò  rimandava ai concetti di mettere assieme, collegare, paragonare.  Il simbolo quindi collega, costruisce un ponte tra uno stimolo che lo attiva e l’insieme dei significati che dischiude.

 

 

 

Turner citando lo psichiatra svizzero Carl Gustav Jung evidenzia che un segno è “l’espressione analoga o abbreviata di una cosa nota. Ma un simbolo è sempre la migliore espressione possibile di un fatto relativamente ignoto, fatto che nondimeno è riconosciuto o postulato come esistente” (Turner 2001, 51). Quindi riprendendo una classificazione di Edward Sapir, l’autore differenzia i simboli referenziali, di natura prevalentemente cognitiva e quindi assimilabili al concetto di segno, dai simboli di condensazione i quali, citando lo stesso Sapir, sono “forme altamente condensate di comportamenti sostitutivi di espressioni dirette, che mettono in conto la pronta scarica di tensione emotiva in forma conscia o inconscia. (…) mentre il simbolismo di riferimento si sviluppa mediante un’elaborazione formale nel conscio, il simbolismo di condensazione affonda radici sempre più profonde nell’inconscio ed estende la sua qualità emozionale a tipi di comportamento e a situazioni apparentemente molto lontani dal significato originario del simbolo” (Turner 2001, 54)

 

Al di là quindi della scelta criticabile di Sapir, di definire un concetto assimilabile a segno come ‘simbolo referenziale’, alimentando l’ambiguità esistente tra i concetti di segno e simbolo,  appare importate il distinguo sottolineato da Turner, che delimitando il concetto di simbolo ne definisce meglio natura e modalità di approccio interpretativo. Riconoscere che i simboli rituali “gettano radici sempre più profonde nell’inconscio” (Turner 2001, 59) dell’uomo suggerisce che la loro interpretazione non può limitarsi ad una neutrale ‘raccolta di informazioni’ sul campo ma deve andare in profondità per cercare di evidenziarne anche gli aspetti non riconosciuti o rimossi, mettendone in luce le stratificazioni di significato, senza cadere, avverte Turner, in interpretazioni esclusivamente psicoanalitiche che escludono le interpretazioni indigene dei simboli, o l’unilateralità di certi antropologi che considerano esclusivamente le interpretazioni indigene ai simboli.

 

 

 

Turner infatti propone di indagare il significato dei simboli rituali, a partire da tre diverse fonti di informazione: la forma esteriore del rituale direttamente osservabile, le interpretazioni fornite dai nativi sul rituale stesso e le strutture di significato elaborate sul campo o successivamente.

 

Il significato simbolico emerge quindi incrociando le varie fonti di informazione, le interpretazioni dei nativi, sia gli specialisti del rituale che i profani, le osservazioni ‘sul campo’ di cosa e come avviene durante il rituale, struttura del gruppo che lo tratta, selezione di chi vi partecipa, stati affettivi-emozionali dei partecipanti e così via, assieme all’analisi del rapporto dei simboli del rituale con la struttura simbolica complessiva della cultura in esame, l’inserimento dello specifico in una Gestalt in cui il tutto è più della somma delle singole parti per citare una massima cara ai gestaltisti. Un’analisi che collega vari piani interpretativi identificati dall’autore come livello operazionale (ciò che visto e osservato), livello esegetico (le interpretazioni raccolte, attribuite e date alla specifica esperienza) e livello posizionale (come e dove l’esperienza raccolta si inserisce nel reticolo di significati e nelle strutture simboliche della specifica cultura).

 

 

 

L’approccio interpretativo evidenzia le tre proprietà identificate da Turner nei simboli rituali:

 

    • condensazione di più cose ed azioni sotto un’unica rappresentazione,
    • unificazione di significata disparati ma legati tra loro per associazione di fatto o di pensiero (la proprietà polisemica del simbolo),
    • polarizzazione del significato in un ‘polo ideologico’ ed un ‘polo sensoriale’ in cui il primo dei quali rappresenta simbolicamente norme e valori della società, mentre il secondo è legato alle forme esteriori del simbolo, a processi naturali o fisiologici.

 

 

 

E’ soprattutto questa ultima proprietà ad essere evidenziata da Turner in quanto legata direttamente alla funzione regolatrice, a livello sociale, dei simboli rituali; comprendendo in sé la parte normativa e valoriale della specifica società, assieme alle istanze più prettamente istintuali e quindi potenzialmente disgregatrici, il simbolo rituale ha la funzione di incanalare quest’ultime nell’alveo del ‘socialmente accettabile’ ribadendo i valori fondativi della società: “il rituale adatta e periodicamente riadatta l’essere biopsichico individuale alle condizioni fondamentali e ai valori assiomatici della vita sociale umana.” (Turner 2001, 70) in quanto  “il simbolo rituale ha in comune col simbolo onirico la caratteristica, scoperta da Freud, di essere una formazione di compromesso tra due tendenze principali in opposizione. E’ un compromesso fra la necessità di controllo e certi impulsi umani, innati e universali, la cui completa soddisfazione comporterebbe la rottura di tale controllo.” (Turner 2001, 63)

 

 

 

 Scrive Turner che “il rituale (…) è appunto un meccanismo che periodicamente trasforma il coercitivo in desiderabile” (Turner 2001, 55) in quanto  “all’interno del proprio contesto di significati, il simbolo dominante[8] mette in stretto contatto le norme etiche e giuridiche della società con forti stimoli emotivi” (Turner 2001, 55). Emerge quindi nell’interpretazione data dall’autore, la fondamentale funzione del simbolico, all’interno dei rituali specifici di una cultura, di ‘regolatore sociale’, di elemento contrastante le forze centripete, potenzialmente disgregatrici, che emergono dallo scontro tra il piano individuale delle pulsioni, istinti e aspirazioni e quello sociale etico, giuridico e normativo. 

 

 

Clifford Geertz[9] : l’uomo attivo costruttore di significati simbolici

 

 

 

Se vogliamo scoprire in che cosa consiste l’uomo,

 

possiamo trovarlo solo in ciò che gli uomini sono:

 

ed essi sono soprattutto differenti.

 

(Geertz 1998, 67)

 

 

 

L’approccio antropologico di Clifford Geertz trova una sintesi molto rappresentativa in una affermazione che si trova in una delle prime pagine della sua opera ‘Interpretazione di culture’:

 

“Ritenendo con Max Weber, che l’uomo sia un animale impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto, affermo che la cultura consiste in queste reti e che perciò la loro analisi è non una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato.” (Geertz 1998, 11)

 

 

 

La cultura è vista dall’autore come la ‘rete di significati’ simbolici che il nativo, immerso in essa, ha costruito e all’interno dei quali egli si muove e agisce. Per capire una cultura quindi, non è sufficiente una minuziosa descrizione etnografica dei comportamenti osservati, ma si rende necessario un approccio interpretativo che cerchi di svelare le costruzioni simboliche che stanno alla base dei comportamenti osservati e che li dotano di un senso compiuto all’interno della cultura di riferimento. La proposta di Geertz è quella di “trattare i fenomeni culturali come sistemi di significato che pongono problemi interpretativi” (Geertz 1988, 5) con un passaggio da una thin description ad una thick description[10] (vedi l’esempio, citato da un opera di Gilbert Ryle, dei due ragazzi che strizzano l’occhio destro e le differenti interpretazioni del gesto tra tic e ammiccamenti) con lo scopo di “trarre grandi conclusioni da piccoli fatti, ma fittamente intessuti: di sostenere affermazioni generali sul ruolo della cultura nella costruzione della vita collettiva, confrontandole nei dettagli con l’analisi di casi specifici” (Geertz 1998, 39).

 

 

 

Da qui la ricerca di significati e non di leggi (un approccio più idiografico che nomotetico) proponendo un concetto semiotico di cultura, intesa come “costituita di sistemi interconnessi di segni interpretabili” (Geertz 1998, 22) proponendone una modalità di approccio interpretativa: “la cultura è trattata nel modo più efficace puramente come sistema simbolico (lo slogan è << nei suoi propri termini >>), isolandone gli elementi, specificando i rapporti interni fra quegli elementi e quindi caratterizzando l’intero sistema in qualche modo generico – in base ai simboli centrali attorno a cui è organizzata, alle strutture fondamentali di cui è un’espressione superficiale o ai principi ideologici su cui si fonda.” (Geertz 1998, 26)

 

 

 

La cultura, per usare le espressioni di Geertz, non è una realtà autonoma dotata di forze e scopi propri che si presta ad essere reificata, neppure un riduttivo grezzo schema di eventi comportamentali e neppure un insieme di strutture psicologiche situate nella mente e nel cuore degli uomini (Geertz 1998, 18) ma l’insieme dei significati simbolici che gli appartenenti ad una determinata cultura condividono (l’autore le chiama “strutture di significato socialmente stabilite”), cultura descritta dall’autore come: “un modello di significati trasmesso storicamente, significati incarnati in simboli, un sistema di concezioni ereditate espresse in forme simboliche, per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita.” (Geertz 1998, 113) o ancora come: “un sistema ordinato di significato e di simboli, nei cui termini ha luogo l’interazione sociale (…) La cultura è l’intelaiatura di significato nei cui termini gli esseri umani interpretano la loro esperienza e orientano la loro azione” (Geertz 1998, 164)

 

 

 

Per Geertz, l’uomo è un animale dotato di un corredo istintuale insufficiente a guidarlo attraverso le esperienze della vita e questo è stato compensato evolutivamente dalla capacità di creare dei ‘meccanismi di controllo’ culturali. Delegando quindi il controllo comportamentale a meccanismi extragenetici ed extracorporei, le costruzioni culturali, intese come strutture di significato socialmente condivise, attraverso le quali si dispiega l’esistenza del singolo, possono assumere le forme più disparate: “La mia opinione, (…) è che non vi sono generalizzazioni che si possano fare circa l’uomo come tale, tranne che è un animale molto vario, o che lo studio della cultura non può in alcun modo contribuire alla scoperta di queste generalizzazioni.” (Geertz 1998, 53)

 

 

 

Approccio ermeneutico al simbolo

 

L’approccio geertziano è quindi un approccio ermeneutico teso a svelare le strutture di significato simboliche, nascoste tra le pieghe dei comportamenti osservati. In questo approccio diviene centrale il concetto di ‘costruzione simbolica’ intesa come l’insieme delle attribuzioni simboliche che l’individuo proietta su un determinato evento, che generalmente sono socialmente condivise e che per questo dotano l’evento di un significato simbolico costituente la trama di quella ragnatela chiamata cultura in cui l’individuo è impigliato.

 

 

 

E’ questa ragnatela di significati simbolici che deve essere rivelata, secondo l’autore, per poter comprendere la cultura dal punto di vista dell’antropologo. E’ il sistema simbolico che la alimenta che deve essere rivelato. A questo approccio allude il  filosofo Paul Ricoeur[11] con l’affermazione che dà il titolo ad una sua opera: ‘Il simbolo dà a pensare’. Scrive l’autore: “Il simbolo dà a pensare – : questa sentenza che m’incanta dice due cose; il simbolo dà; io non pongo il senso, è il simbolo che dà senso – ma ciò che esso dà è da pensare, è ciò su cui pensare. A partire dalla donazione, la posizione. La sentenza suggerisce quindi, nel medesimo tempo, che tut-to è già detto in forma di enigma e tuttavia tut-to sempre deve essere cominciato e ricominciato nella dimensione del pensiero”(Ricoeur 2002, 9)

 

 

 

L’approccio al simbolo è quindi secondo Geertz, un approccio ermeneutico, seguendo il pensiero di  filosofi quali Martin Heidegger (1889 – 1976) e Hans-George Gadamer (1900 – 2002). Il simbolo svela attraverso un processo interpretativo, ed è proprio l’approccio interpretativo a rendere così fecondo il simbolo. Scrive il filosofo italiano Gianni Vattimo[12] a questo proposito: “L’ermeneutica Heideggeriana si fonda sul presupposto che ciò che rimane nascosto non costituisce il limite e lo scacco del pensiero, ma anzi il terreno fecondo su cui, solo il pensiero può fiorire e svilupparsi” (Vattimo 1963, 150)

 

 

 

L’approccio ermeneutico si sviluppa quindi in modo circolare, dando vita ad un movimento che non si esaurisce mai in se stesso. Esso accenna senza mai definire completamente. E’ questa una delle differenze più marcate con l’approccio del pensiero scientifico. Per questo Gadamer sottolinea la necessità di approcciare determinate ‘zone di verità’ in un ottica interpretativa ermeneutica.

 

In un ottica gadameriana, la cultura è rappresentata da Geertz con la metafora di un testo che deve essere interpretato, un approccio esegetico che in modo circolare cerchi di svelare i molteplici strati di significato simbolico che forniscono il senso alle esperienze, per l’individuo che ne vive immerso. La cultura come un testo scritto dai nativi che l’antropologo deve decifrare  (cfr Malighetti 2001, 43) incontrando le difficoltà interpretative di chi deve tradurre un testo scritto in una lingua che non è la propria. Scrive Gadamer che: “non può esserci dubbio che la traduzione di un testo, per quanto il traduttore sia penetrato nell’animo e nella mentalità dell’autore, non può mai essere una pura riattualizzazione del processo spirituale originario della produzione, ma una riproduzione del testo guidata dalla comprensione di ciò che in esso vien detto. Nessuno può mettere in dubbio che qui si tratta di un’interpretazione, non di un puro ricalco. E’ una luce nuova e diversa quella che viene proiettata sul testo della nuova lingua e per il lettore della traduzione. L’imperativo della fedeltà, che vale per ogni traduzione non può sopprimere le fondamentali differenze che sussistono tra le diverse lingue. Anche quando ci proponiamo di essere scrupolosamente fedeli ci troviamo a dover operare difficili scelte. Se nella traduzione vogliamo far risaltare un aspetto dell’originale che a noi appare importante, ciò può accadere, talvolta a patto di lasciare in secondo piano o addirittura eliminare altri aspetti pure presenti. Ma questo è proprio ciò che chiamiamo interpretare. La traduzione, come interpretazione, è una chiarificazione enfatizzante” (Gadamer, 1972)

 

 

 

Un approccio quindi semiotico della cultura vista come una ‘ragnatela’ di significati che debbono essere rivelati per poter accedere ad una sua interpretazione, la cultura vista metaforicamente come un testo scritto dai nativi interpretando la loro realtà, e che l’antropologo cerca di decodificare, dando origine ad interpretazioni di interpretazioni (o spesso interpretazioni di interpretazioni di interpretazioni quando tra l’antropologo e i nativi si situa la figura dell’informatore che fornisce all’antropologo una visione già interpretata da se stesso, della cultura in cui è immerso).  Un approccio multistrato che svela progressivamente nuovi significati in un circolo interpretativo ermeneutico che non si esaurisce ma al contrario si arricchisce ad ogni approfondimento di nuovi significati (concetto ryleniano della ‘thick description’). Per questo per Geertz, il lavoro dell’antropologo assomiglia di più a quello del critico che illustra una poesia che a quello dell’astronomo che descrive una stella (Geertz 1988, 14) intendendo con ciò segnare la differenza con un approccio tradizionale di “fisica sociale basata sulle leggi e sulle cause” (Geertz 1988, 5) che non ha prodotto “quei trionfi di prevedibilità, controllo e verificabilità che erano stati così a lungo promessi in suo nome” (Geertz 1988, 5).

 

 

 

Il concetto di simbolo in Geertz

 

La costruzione simbolica è quindi un concetto centrale nel pensiero di Geertz, ma cosa intende l’autore con il termine di simbolo ? Per stessa ammissione dell’autore: “Sulla parola <<simbolo>> grava un carico così pesante che la nostra prima mossa deve consistere nel decidere con una certa precisione che cosa vogliamo intendere con essa. Non è un compito facile perché <<simbolo>>, come <<cultura>>, è stato usato riferendosi a una grande varietà di cose, spesso a parecchie insieme e contemporaneamente.” (Geertz 1998, 115)

 

In ‘Interpretazione di culture’ di Geertz non si coglie questa distinzione tra concetti come segno e simbolo (o allegoria, metafora, emblema…), l’accento è posto piuttosto sui risultati prodotti (conferire significato ad una esperienza) e non alla definizione concettuale di cosa può essere identificato come ‘simbolo’.  Scrive Geertz che il simbolo è: “… qualunque cosa che sia avulsa dalla sua semplice realtà e usata per conferire significato all’esperienza.” (Geertz 1998, 59).

 

 

 

Secondo l’autore qualsiasi cosa veicoli un significato, all’interno di una data esperienza, funge da stimolo attivatore di significati simbolici che servono all’individuo per collocare l’esperienza all’interno delle coordinate della sua cultura. Secondo l’autore simbolo è quindi: “… ogni oggetto, atto, avvenimento, qualità o rapporto che serva da veicolo per un concetto – il concetto è il << significato >> del simbolo - … Il numero 6 scritto immaginato, rappresentato da una fila di sassi o anche di fori nelle schede di un calcolatore, è un simbolo; ma lo è anche la Croce, discussa, visualizzata, tracciata con preoccupazione nell’aria o toccata con devozione al collo, lo è il pezzo di tela pitturata chiamata <<Guernica>> o la pietra dipinta chiamata churinga, la parola <<realtà>> e perfino il morfema <<-endo>>. Sono tutti simboli o almeno elementi simbolici, perché sono formulazioni tangibili di nozioni, astrazioni dall’esperienza fissate in forme percebili, incarnazioni concrete di idee, atteggiamenti, giudizi, desideri o credenze.“ (Geertz 1998, 116)

 

 

 

Conclusioni

 

Dopo aver letto le opere citate in bibliografia dei due autori trattati nel presente lavoro, resta l’impressione che la tematica della costruzione simbolica nell’essere umano sia stata trattata da due prospettive differenti: una visione che cala dall’alto (inteso come dal ‘sociale’) per Turner e una visione che parte dal basso (inteso come dal singolo individuo) per Geertz.

 

 

 

Victor Turner nel suo lavoro evidenzia sopratutto la funzione di ‘regolatore sociale’ delle costruzioni simboliche, che essendo socialmente condivise hanno una attiva funzione di regolare le attività degli individui in quanto “i simboli sono intimamente connessi al processo sociale” (Turner 2001, 44) e “stimolano all’azione sociale” (Turner 2001, 62).

 

Turner evidenzia quindi in maniera prevalente la funzione ‘regolatrice’ a livello sociale dei simboli rituali: “Le esecuzioni dei rituali sono fasi di vasti processi sociali (…) Una classe di rituali si colloca vicino all’apice di tutta una gerarchia di istituzioni correttrici e regolatrici che rettificano le deviazioni dal comportamento prescritto dal costume. Un’altra classe anticipa deviazioni e conflitti” (Turner 2001, 72). Anche quando Turner evidenzia il ruolo antistrutturale e creativo delle produzioni simboliche nella fase liminare del rito (o in quelle liminoidi della società odierna), la focalizzazione è sempre sulla struttura sociale verso cui questa creatività è indirizzata.

 

 

 

Turner identifica i simboli rituali, di cui tratta, come costruzioni simboliche degli individui influenzate dalle dinamiche sociali e messe in circolo all’interno della specifica società, in contrapposizione a quelli che chiama ‘simboli individuali’ che sarebbero invece costruzioni simboliche del singolo individuo, influenzate da dinamismi intrapsichici interni. Scrive infatti l’autore che: “distinguendo tra simboli rituali e simboli individuali, si può forse dire che, mentre i simboli rituali sono mezzi generali e poco differenziati per affrontare la realtà naturale e sociale, i simboli psichici si modellano prevalentemente sotto l’influenza di spinte interne. Nell’analizzare i primi, l’attenzione deve essere rivolta prevalentemente ai rapporti tra i dati esterni alla psiche; nell’analisi dei secondi, ai dati endopsichici.” (Turner 2001, 64). L’analisi dell’autore si concentra prevalentemente sui primi (i simboli rituali) e lascia sullo sfondo i secondi (i simboli individuali).

 

 

 

In Geertz non si ritrova questa divisione tra differenti classi di simboli, e l’autore tratta la costruzione simbolica dell’essere umano in un senso più ampio, in cui, pur riconoscendone la valenza sociale, evidenzia come il simbolo serva principalmente al singolo per fornirgli delle coordinate di significato all’interno delle quali interpretare la cultura all’interno della quale agisce.

 

 Geertz non nega affatto l’importanza della ritualità all’interno di una cultura, arrivando anzi a definire l’uomo come ‘Homo ritualis’ in quanto il rituale è “l’essenza della forma di vita umana” (Geertz in Cimmino e Santambrogio 2004, 213). Allo stesso tempo, in linea con il pensiero di Turner, Geertz riconosce la funzione strutturante, a livello sociale, dei simboli rituali come lui stesso afferma: “E’ nel movimento delle persone, o più esattamente di gruppi di persone, attraverso le dense allegorie del rituale, attraverso la <<foresta dei simboli>>, che la comunità umana si forma, riforma e mantiene” (Geertz in Cimmino e Santambrogio 2004, 219).

 

Lo sguardo di Geertz non si ferma però solamente sui simboli rituali ma si allarga più in generale su tutta la costruzione simbolica dell’essere umano, come specie vivente che “”crea filosofie e poemi allo stesso modo che il baco da seta produce il suo bozzolo e l’ape costruisce gli alveoli” (Cassirer 2009, 73)

 

 

 

Non è quindi solo la dimensione sociale in cui si muove il processo di simbolizzazione ad essere evidenziata da Geertz ma più in generale la capacità umana di trasformare su di un piano simbolico le proprie esperienze, alimentando una ‘realtà simbolica’, inserita nella propria specifica cultura,  e che fornisce struttura e riferimenti necessari per poter affrontare gli eventi della vita. 

 


Bibliografia
 (tra parentesi l’anno dell’edizione originale)

 

 

 

 

 

·       CASSIRER Ernst. 1996. Filosofia delle forme simboliche, 3 Volumi. Firenze: La Nuova Italia. (1923 – 1929)

 

·       CASSIRER Ernst. 2009. Saggio sull’uomo. Roma: Armando Editore. (1944)

 

·       CIMMINO Luigi e SANTAMBROGIO Ambrogio (a cura di). 2004. Antropologia e interpretazione. Il contributo di Clifford Geertz alle scienze sociali. Perugia: Morlacchi Editore. (2004)

 

·       GADAMER George. 1972. Verità e metodo. Milano: Fabbri Editore (1960)

 

·       GEERTZ Clifford. 1988. Antropologia interpretativa. Bologna: Il Mulino (1983)

 

·       GEERTZ Clifford. 1998. Interpretazione di culture. Bologna: Il Mulino (1973)

 

·       JACOBI Jolande. 2004a. Complesso, archetipo, simbolo nella psicologia di C. G. Jung. Torino: Bollati Boringhieri. (1957)

 

·       JACOBI Jolande. 2004b.  La psicologia di C. G. Jung. Torino: Bollati Boringhieri (1944)

 

·       JUNG Carl Gustav. 1983. L’uomo e i suoi simboli. Milano: Raffaello Cortina. (1967)

 

·       KUHN Thomas. 2009. La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Milano: Einaudi. (1962)

 

·       MALIGHETTI Roberto. 2001. Il filosofo e il confessore. Antropologia ed ermeneutica in Clifford Geertz. Milano: Edizioni Unicopli (1991)

 

·       RICOEUR Paul. 2002. Il simbolo dà a pensare. Brescia: Morcelliana (1959)

 

·       TURNER Victor. 1986. Dal rito al teatro. Bologna: Il Mulino (1982)

 

·       TURNER Victor. 2001a. Il processo rituale. Struttura e anti-struttura. Brescia: Morcelliana (1969)

 

·       TURNER Victor. 2001. La foresta dei simboli. Aspetti del rituale Ndembu. Brescia: Morcelliana (1967)

 

·       VAN GENNEP Arnold. 2007. I riti di passaggio. Torino: Bollati Boringhieri (1909)

 

·       VATTIMO Gianni. 1963. Essere, storia e linguaggio in Heidegger. Torino: Edizioni di Filosofia. (1963)

 



[1] E. CASSIRER (1874 – 1945): considerato un filosofo neokantiano, studiò giurisprudenza a Marpurgo, letteratura e filosofia germanica presso le università di Berlino, Lipsia e Heidelberg. Nel 1896 intraprese gli studi di filosofia e di matematica. Ha insegnato a Berlino e Amburgo. Di queste Università sarà Rettore dal 1931 al 1933. L’avvento del nazismo lo costrinse all’esilio. Dapprima trovò ospitalità in Inghilterra (Oxford), poi in Svezia (all’Università di Göteborg). Ma nel 1941 il precipitare degli eventi bellici lo costrinse a riparare negli Stati Uniti. Qui insegnò alla Yale University e, successivamente, alla Columbia University. Tra le sue opere principali ricordiamo: Storia della filosofia moderna (1906 – 1932), Filosofia delle forme simboliche, in 3 volumi (1923 – 1929); La filosofia dell’illuminismo (1932) e Saggio sull’uomo (1944) che nell’intento dell’autore riassume e chiarisce tutte le sue precedenti ricerche.

 

[2] Tenendo conto delle caratteristiche dei nostri sistemi sensoriali, si deve accettare il fatto che  in ogni caso la percezione della realtà è una percezione “umanizzata”. Il mondo dei rumori nell’essere umano è diverso da quello del cane, e quello dei colori diverso da quello di un insetto. La nostra vista è dieci volte meno acuta di quella di un aquila, e così via. Il mondo che percepiamo è quindi il frutto di sistemi sensoriali che rilevano sono una parte delle caratteristiche oggettive del reale. In questa prospettiva possiamo comprendere le parole del poeta inglese William Blake: Se le porte della percezione venissero sgombrate, tutto apparirebbe all'uomo come in effetti è, infinito”.

[3] V. TURNER (1920 – 1983), antropologo considerato uno dei massimi esponenti dell’Antropologia Simbolica, ha svolto un’approfondita ricerca etnografica tra gli Ndembu dello Zambia e gli Gisu in Uganda. E’ stato docente presso varie università americane la ultima delle quali l’Università della Virginia dove ha insegnato Antropologia delle Religioni. Importanti i suoi studi sui rituali Ndembu quali chiave di accesso alle costruzioni simboliche che la società ha strutturato per autoregolarne le dinamiche interne.

[4] Altre espressioni simboliche possono esprimersi in altre esperienze del vissuto umano quali ad esempio quella onirica che si manifesta attraverso i sogni o quella linguistica in cui il linguaggio assume anche delle valenze evocative a livello simbolico.

[5] A. VAN GENNEP (1873 – 1957), professore di Etnologia all’Università di Neuchâtel, studiò i problemi generali dell’etnologia e del folklore, stabilendo metodi di investigazione che accomunano a etnologi quali Frazer e Tylor. Si occupò soprattutto di folklore francese, ma lasciando anche contributi importati di carattere etnologico.

[6] F. REMOTTI (1943 – vivente) è stato direttore del Dipartimento di Scienze Antropologiche, Archeologiche e Storico-Territoriali dell'Università di Torino e presidente del Centro Studi Africani (CSA), ha guidato la Missione Etnologica Italiana in Africa Equatoriale dal 1979 al 2004. Si è occupato di questioni teoriche, in particolare dello strutturalismo di Lévi-Strauss, e ha condotto ricerche sul campo in Congo, presso la popolazione baNande. E’ professore ordinario di Antropologia culturale ed Etnologia dell'Africa e presidente del corso di laurea in Comunicazione interculturale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino.

[7] Sulle teorie dei sistemi in biologia, si veda ad esempio la teoria dei sistemi autopoietici di Humberto MATURANA e Francisco VARELA in  Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Marsilio, Venezia, 2001o una precedente pregevole opera di riferimento, edita nel 1969 dal biologo austriaco Ludwig von BERTALANFFY, Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo applicazioni, di cui esiste una recente edizione del 2004 edita da Mondadori

[8] Turner propone una classificazione dei simboli, in base alla funzione che essi svolgono all’interno dello specifico rituale.  Ad esempio analizzando il Nkang’a, rituale della pubertà femminile presso gli Ndembu, l’autore differenzia i ‘simboli dominanti’ (in questo caso l’albero del latte chiamato mudyi presso il quale viene eseguito il rituale, il cui nome deriva dal lattice bianco che trasuda qualora se ne scalfisca la corteccia), identificati come “l’unità elementare del rituale, il simbolo dominante, racchiude le proprietà principali dell’intero processo rituale” (Turner 2001, 55)

I ‘simboli supplementari’ rafforzano invece i contenuti del simbolo dominante (ad esempio in questo rituale l’atto di nutrire o gli alimenti presentati), mentre i ‘simboli strumentali’ sono funzionali al raggiungimento dello scopo del rituale, “sono mezzi per il fine principale del rituale” (Turner 2001, 58).  

[9] C. GEERTZ (1926 - 2006), considerato uno dei maggiori antropologi contemporanei, dal 1970 ha insegnato Scienze Sociali all’Institute for Advanced Study di Princeton negli USA. Ho svolto numerose ricerche etnologiche sul campo in Indonesia (Giava, Bali e Sumatra) e in Marocco. Sua la proposta di un’antropologia riflessiva, che rifacendosi all’ermeneutica, si prefigga di svelare le costruzioni simboliche con cui il nativo interpreta e agisce la propria cultura.

[10] Come scrive l’autore: “…l’etnografia è thick description. (…) Fare etnografia è come cercare di leggere (nel senso di <<costruire una lettura di>>) un manoscritto – straniero, sbiadito, pieno di ellissi, di incongruenze, di emendamenti sospetti e di commenti tendenziosi, ma scritto non in convenzionali caratteri alfabetici, bensì con fugaci esempi di comportamento strutturato.” (Geertz 1998, 17)

[11] P. RICOEUR (1913 – 2005), è stato un filosofo e professore universitario francese. Influenza attivamente le correnti della fenomenologia ed ermeneutica all’interno della filosofia europea del XX secolo. Influenzato a sua volta dalle opere dei ‘maestri del sospetto’ (Marx, Nietzche e Freud), sviluppa la tensione all’interpretazione della realtà attraverso l’esegesi e l’ermeneutica, volte a svelare i molteplici piani su cui si muove la realtà delle cose.

[12] G. VATTIMO (1936 – vivente): filosofo italiano, ha introdotto in Italia il pensiero di Georg Gadamer, di cui è stato allievo. Attualmente  insegna Filosofia Teoretica all’Universtià di Torino.