La sicurezza del morire e le prospettive verso il futuro

 


Che cos'è morire, se non stare nudi nel vento e disciogliersi al sole?
E che cos'è emettere l'estremo respiro se non liberarlo dal suo incessante fluire,

 così che possa risorgere e spaziare libero alla ricerca di Dio?
Solo se berrete al fiume del silenzio, potrete davvero cantare.
E quando avrete raggiunto la vetta del monte, allora incomincerete a salire.
E quando la terra esigerà il vostro corpo, allora danzerete realmente.

  

 (Kahlil Gibran – Il profeta)

 

 

 

La morte rappresenta l’ultimo porto a cui attracchiamo nella nostra navigazione nella vita: l’esperienza in questa terra è inevitabilmente a termine e la morte è un punto fermo che congela le lancette dell’orologio.

 

Se dovessimo collocare un punto fermo nell’orizzonte della nostra vita, per come la conosciamo, questo sarebbe sicuramente la morte, essa è una dimensione ineluttabile della vita, la fine di un percorso, l’interrompersi di una parabola. A tale proposito, scrive Jung in una sua opera del 1934: “La vita è un fluire di energia. Ma ogni processo energetico è irreversibile per principio e quindi diretto in modo univoco verso una meta: e tale meta è uno stato di riposo. Qualunque processo non è in definitiva che il turbamento iniziale di uno stato di quiete, per così dire eterno, il quale mira costantemente a ristabilirsi. Anzi la vita è quanto vi è di più teleologico; essa è di per sé tendenza a un fine; e il corpo vivente è un sistema di finalismi che tendono alla propria realizzazione. (…) La curva della vita è come la traiettoria di un proiettile. Tolto dal suo stato iniziale di quiete, il proiettile sale, per ritornare scendendo allo stato di quiete.”[1]

 

 

 

Ma che cosa è la morte ? Già Epicuro insegnava che quando c’è la morte noi non siamo più e quando non ci siamo, non c’è la morte[2]. La morte è quindi una dimensione che non può essere esperita dalla coscienza: la morte, per quanto ci è dato di sapere,  è una dimensione preclusa all’indagine della coscienza .

 

Noi conosciamo la morte solamente attraverso la morte dell’altro: è incontrando la morte dell’altro che possiamo fare indirettamente esperienza di questa dimensione. La dimensione della morte ci accompagna anche se spesso è un pensiero rimosso lungo il corso dell’intera esistenza.

 

Vita e morte sono intrinsecamente legate assieme. Eppure oggi il rapporto con la morte è estremamente conflittuale: la morte spaventa, è tabù da non menzionare, elemento da esorcizzare, da rimuovere alla coscienza. L’uomo occidentale sembra aver dimenticato la morte come fedele e paziente compagna di una intera esistenza. La morte che ci attende alla fine in un ultimo abbraccio è stata rinchiusa negli ospedali, nei ricoveri, nelle cliniche specializzate, oppure è inflazionata come spettacolo dai mass media. Una morte in televisione, nei giornali, una morte lontana, che non ci riguarda, una morte spettacolo che esorcizza il pensiero della nostra morte casalinga, devota compagna delle nostre giornate affannate nel fare qualcosa.

  

morteCome possiamo recuperare quindi il senso della morte? La morte esiste, e questo è ineluttabile, come possiamo allora integrarla all’interno della nostra visione della vita? Se venire al mondo è un dischiudersi di possibilità, la morte mette il sigillo a queste possibilità. Ed è forse questo uno dei sensi da recuperare alla dimensione della morte. Rendendoci pienamente consapevoli che la nostra esperienza terrena ha un termine, che la nostra clessidra si svuota inesorabile, che ogni respiro esperito, ci avvicina al giorno del nostro congedo: è questa consapevolezza che rende pressante il bisogno di riempire l’intera esistenza di un senso compiuto, poiché solo riempiendo ogni attimo dell’esistenza, posso arrivare alla fine dei miei giorni ‘sazio di vita’.

 

La nostra esperienza ci fa affermare che le cose perdono di valore se si ha l’illusione di possederle per sempre. Questa sembra essere una regola generale: vale per le cose fisiche, per le relazioni con gli altri, per le conquiste della vita, per la vita di cui disponiamo. La consapevolezza che posso perdere qualcosa da un momento all’altro mi spinge a godere appieno ogni istante che mi viene regalato assieme ad essa. Il momento struggente del saluto di due amanti alla stazione del treno ne è un esempio lampante: l’avere la certezza che si hanno ancora alcuni istanti per godere dell’altra persona prima di perderla, seppur temporaneamente, amplifica l’intensità con cui vivo questi ultimi istanti.

 

La morte ci porta quindi ad incontrare il dono della perdita. La persona che muore perde la vita, a chi resta in vita, la morte, fa perdere la persona amata, il caro amico, il conoscente, il vicino il cui incontro era entrato nella nostra quotidianità. Ma non perdiamo solo la persona che muore, perdiamo anche tutto quello che potevamo fare assieme alla persona che muore. Scrive il filosofo contemporaneo Salvatore Natoli: “Quando muore qualcuno che si ama, muore tutto quello che si sarebbe potuto vivere con lui: non muore solo l’altro, ma è un universo di possibilità, un intero mondo che precipita nel nulla. L’altro mi trascina irrimediabilmente nella sua morte, poiché porta via una parte di me, tutta quella parte di me che gli concerne, che lo riguarda”[3]

 

         Potremmo quindi dire che: “chi muore perde il mondo, chi perde la persona amata, perde parte di sé”[4].

 

 

Il lutto, il pianto inconsolabile verso chi ci ha lasciato è quindi la constatazione che abbiamo perso la sua unicità, e la perdita è irreparabile.

 

La morte si prende con sé la persona assieme a tutta la rete di ‘socialità’ che la persona ha tessuto pazientemente per la vita intera. Per questo il vuoto che si crea, non riguarda solo lo spazio fisico occupato dalla persona in vita ma anche tutte le relazioni che la persona aveva creato in vita. Il buco nero delle morte attira a sé e inghiotte tutto ciò che aveva a che fare con la persona in vita. La morte non restituisce mai ciò che si prende. Anche nel Libro di Giobbe[5], il protagonista si vede restituiti alla fine raddoppiati tutti i suoi averi da Dio che gli concede altri sette figli maschi e tre figlie femmine, ma non vengono citati i dieci figli morti. Essi sono persi per sempre, presi nell’abbraccio della morte che, gelosa,  nulla ritorna.

 

Sapendo che la morte si porterà via la vita, accogliendo questa consapevolezza come una fedele amica, veniamo invitati a godere con intensità questa esperienza a termine. Sapendo altresì che la morte si può portare via in ogni momento le persone care che ci stanno accanto, ci invita a godere con intensità ogni istante che passiamo assieme a loro. A fare di ogni istante un intenso, struggente, indimenticabile saluto alla stazione.

 

         Ma la morte non è solo la morte fisica delle persone: esiste una morte simbolica di relazioni, di esperienze, di parti della nostra personalità, di oggetti a noi cari. Godi oggi di ciò che hai perché ‘di doman non c’è certezza’[6], come scriveva Lorenzo dè Medici.

  

C’è anche un altro aspetto che và evidenziato nell’esperienza di perdita che la morte in genere porta con sé. Nella prospettiva sciamanica, la morte simbolica è sempre stata ritenuta una condizione fondamentale per poter smettere di essere quello che si è per accedere ad un piano esistenziale ulteriore.[7]

 

Se vogliamo fare un passo avanti, dobbiamo lasciar morire quello che c’è dietro. Il senso taoista del fluire, del lasciarsi andare, dell’affidarsi alla corrente del fiume che scorre, presuppone l’accettazione di un incessante nascere e morire di eventi. Il fluire delle stagioni porta in sé l’accettazione che quello che c’era non è più e quello che c’è più non sarà. La capacità di lasciare andare le cose al flusso della vita. Recita una storia Zen: “Un uomo ricco chiese a Sengai di scrivergli qualche cosa per la continua prosperità della sua famiglia, così che si potesse custodirla come un tesoro di generazione in generazione. Sengai si fece dare un grande foglio di carta e scrisse:

 ‘Muore il padre, muore il figlio, muore il nipote ’.

 L'uomo ricco andò in collera.

 ‘Io ti avevo chiesto di scrivere qualcosa per la felicità della mia famiglia! Perché mi fai uno scherzo del genere?’.

 ‘Non sto scherzando affatto spiegò Sengai.

 ‘Se prima che tu muoia dovesse morire tuo figlio, per te sarebbe un grande dolore.

 Se tuo nipote morisse prima di tuo figlio, ne avreste entrambi il cuore spezzato.

 Se la tua famiglia, di generazione in generazione, muore nell'ordine che ho detto, sarà il corso naturale della vita. Questa per me è la vera prosperità’.”[8]

  

Purtroppo non sempre le cose seguono il corso naturale della vita. Esiste la morte in vecchiaia, ma anche la morte di un bambino. La morte improvvisa, che arriva e tutto porta via, e la morte lenta, dopo una lunga agonia ed infinite sofferenze. C’è la morte attesa e quella che interrompe all’improvviso i progetti di una vita piena e dinamica. Come dare un senso a un evento che irrompe nell’esistenza privo di senso ? Una psichiatra contemporanea, Elisabeth Kübler-Ross, si occupa da anni di assistenza a malati terminali, ed è considerata una eminente studiosa del passaggio dalla vita alla morte. In un suo libro, Impara a vivere, impara a morire, l’autrice cerca di dare un senso a tutto ciò a chi la sta intervistando: “Si viene al mondo, tra le altre cose, anche per aiutare gli altri e per contribuire alla loro crescita interiore. Provi a pensare ai bambini che nascono con una malattia o un’anomalia e vivono, che so, due anni. Non ha idea di quante persone si lascino commuovere da questi bambini e quanto possa imparare da loro, dalla loro esistenza, la gente. Forse è questo lo scopo della brevità della loro vita. Si pensa spesso che la vita di un bimbo malato o di un bambino Down non sia degna di essere vissuta e che, perciò, potrebbe essere troncata da un farmaco: perché farli soffrire invano? E, tuttavia, bisogna chiedersi: dove andrebbero a finire i nostri maestri di vita? Capisce cosa intendo dire? Tutto dipende dal punto di vista”[9]

  

Non so se questo riesca a consolare chi vive una tale perdita apparentemente priva di senso. Sicuramente come scrive Natoli: “La morte abita la vita non solo perché in astratto la si attende, ma perché a ogni momento l’attraversa”[10].

  

Possiamo credere che nessuno muoia prima che sia arrivata la sua ora e che quindi, qualsiasi vita, breve o lunga che sia, è comunque completa. Questa affermazione chiama però in causa il credere, e quindi l’affidarsi ad una fede, in un disegno trascendente.

 

Cosa dire quindi del rapporto tra fede religiosa e morte ? Tutte le religioni presentano e rappresentano una preparazione alla morte. Per il credente, di qualsiasi fede religiosa si tratti, la morte non è mai la fine di tutta ma l’inizio di una nuova esperienza. La morte non termina, trasforma. Per il cristiano, ad esempio,  la morte è un arrivederci, la separazione con le persone amate è a termine. Alla fine ci si ricongiungerà nell’aldilà. Per il buddista o l’induista la morte è l’inizio di un'altra vita. L’anima trasmigra in altro corpo e ricomincia la sua esperienza nella terra, per l’animista, lo spirito dei defunti, continua a vivere nella terra con i vivi.

 

Religione quindi che prepara il fedele ad affrontare la morte; su questo punto possiamo osare un parallelismo con la Psicologia Analitica. Scrive Marie Luise Von Franz: “Il processo di individuazione è in effetti una preparazione alla morte: si può addirittura affermare che sogni d’individuazione e sogni di morte risultano in via di principio indistinguibili nel loro simbolismo archetipico”[11]

  

Preparazione all’evento della morte: ma la morte è una mera cessazione priva di significato? Non secondo la visione religiosa secondo la quale l’Anima, l’[12]

  

Ed è con questo rispettoso non liquet che preferiamo congedarsi dal nostro parlare di questa dimensione, fedele e silenziosa compagna di una vita. 

 

 

 



[1] C.G. JUNG, Anima e morte – Sul rinascere, Torino. Boringheri, 2006. 21, 22

[2] EPICURO-SENECA (a cura di A. Cerinotti, G. Giolo), Scritti sulla felicità, Firenza. Giunti, 2007. 18

[3] S. NATOLI, La felicità di questa vita, Milano. Mondadori, 2001. 161

[4] Ibidem. 162

[5] G. RAVASI (a cura di), Il libro di Giobbe, Milano. Fabbri Editori, 1997.

[6] Da ‘La canzona di Bacco’, tratto da: L. dè MEDICI (a cura di P. Orvieto), Canti carnascialeschi, Roma. Ed. Salerno, 1991

[7] Per i riti di iniziazione allo sciamanesimo, che includono la  morte e rinascita simbolica del nuovo sciamano, vedi: M. ELIADE, Lo sciamanesimo, Roma. Ed. Mediterranee, 1999

[8] N. SENZAKI, P. REPS (a cura di), 101 Storie Zen, Milano. Adelphi, 1988. 90

[9] E. KŰBLER-ROSS, Impara a vivere, impara a morire, Milano. Armenia, 2001. 80, 81

[10] S. NATOLI, La felicità di questa vita, Milano. Mondadori, 2001. 169

[11] M. L. Von FRANZ, La morte e i sogni, Torino. Boringhieri. 1997. 23

[12] C.G. JUNG, Anima e morte – Sul rinascere, Torino. Boringhieri, 2006. 32-35