Carl Gustav Jung ha proposto ed esplorato il concetto di inconscio collettivo, sostenendo che esso sia una dimensione della psiche condivisa da tutta l'umanità, che contiene esperienze e conoscenze accumulate nel corso della storia evolutiva della specie, fino ai tempi della preistoria.
In alcune delle numerose citazioni disseminate tra le opere dell’autore, compare l’ipotesi che esso contenga non solo le esperienze dell’umano ma anche quello delle forme di vita che lo hanno preceduto e accompagnato stratificando “tematiche esperienziali” che la Vita ha accumulato nel nostro pianeta.
Ad esempio, nell’opera 9, “Gli archetipi e l’inconscio collettivo” Jung scrive che: “Mentre l'inconscio personale è essenzialmente costituito da contenuti che un tempo furono consci ma che sono stati dimenticati o repressi, l'inconscio collettivo è costituito da contenuti che non sono mai stati coscienti e che non devono la loro esistenza a situazioni individuali. (...) In altre parole, è un deposito di tracce mnestiche di esperienze anteriori, di cui molte risalgono a periodi preistorici, e anche preumani.”
Nella visione dell’autore l'inconscio collettivo conserva una sorta di memoria ancestrale, che risale agli albori della vita sulla Terra, facendo quindi riferimento non solo ad una sedimentazione delle esperienze dell’intera umanità sin dalle sue origini ma, in senso più ampio, ad una sedimentazione delle esperienze di tutte le forme di vita (perlomeno quelle animali) sin dalle loro origini in questo pianeta.
Questo “deposito di tracce mnestiche” come lo definisce Jung, raccoglie le esperienze che gli organismi viventi hanno esperito nei 3,5 – 4 miliardi di anni in cui essa è presente nel nostro pianeta.
Ora non dobbiamo immaginare questo “deposito di tracce mnestiche” come un serbatoio di ricordi di esperienze vissute ma piuttosto come l’aggregazione di tematiche esperienziali vissute attorno a dei nuclei di associazione semantica, gli archetipi. Come specifica Jung, se nell’inconscio personale troviamo i complessi, in quello collettivo vi agiscono gli archetipi.
Ora dobbiamo aprire una veloce parentesi sul concetto teorico di archetipi perché la teoria che ricaviamo dagli scritti di Jung non è sempre coerente, essendo disseminata in differenti scritti lungo un arco temporale di decenni. Dagli scritto possiamo ricavarne almeno tre differenti linee di argomentazione:
· Una linea biologica: secondo la quale gli archetipi sono definiti come “eredità innate”, “predisposizioi biologiche”, modelli comportamentali innati”
· Una linea atropologico-sociale: secondo la quale sono descritti come “fatti universali”, “modelli culturali/sociali”, riscontrabili nella mitologia o nelle idee religiose
· Una linea trascendentale-filosofica: secondo la quale sono paragonati a idee platoniche o categorie kantiane
Nella complessità epistemologica di definirli univocamente, resta l’esito da essi sortito, relativo all’effetto aggregatore degli archetipi attorno a delle tematiche universalmente presenti nella psiche inconscia collettiva e di riverbero anche in quella personale. Gli archetipi depositati nell’inconscio collettivo, con i quali la psiche entra in contatto, sono quindi collegati all’intera esperienza che la Vita ha vissuto nel nostro pianeta, stratificatasi nei miliardi di anni, dai primi organismi unicellulari, all’Homo sapiens creando una rete sottile che unisce l’uomo al resto del mondo animale come anche a quello vegetale con il quale la vita animale sulla terra è intrecciata fin dai suoi albori.
Questo senso di appartenenza a tutta la Vita generata in questo pianeta viene ben espressa dal neurologo britannico Oliver Sacks nel suo ultimo libro, completato alcune settimane prima di morire nell’Agosto del 2015:
“Conoscere la mia unicità e la mia antichità biologica, sapere che sono biologicamente imparentato con tutte le altre forme di vita, mi riempie di gioia. Questa conoscenza mi radica, permette che io mi senta a casa nel mondo della natura, che io abbia una percezione del mio significato biologico – quale che sia il mio ruolo nel mondo degli esseri umani e della cultura.” [1]
La Vita, in tutte le forme in cui si è manifestata in questo pianeta, compare, a volte risorgendo dall’estinzione, nel nostro mondo onirico: insetti, dinosauri, piante, uccelli, fiori, draghi, pesci, unicorni, mammiferi, e più in generale le più svariate forme di vita sotto qualsiasi spoglia, rivivono come immagini simboliche nei nostri sogni, portatori di un significato che scorre nel flusso dell’inconscio.
Nella presentazione di oggi ci concentreremo sull’irruzione del mondo vegetale nei nostri sogni, quel mondo che ad oggi rappresenta il 99% della biomassa del nostro pianeta e dal quale la vita stessa del nostro pianeta dipende.
La vita sul nostro pianeta compare dai 4 ai 3,5 mrd di anni fa sotto forma dei primi batteri ed archeobatteri che colonizzarono le acque e poi, sviluppando la capacità di produrre ossigeno tramite la fotosintesi clorofilliana, saturarono l’atmosfera di questo gas, creando le premesse per la diffusione della vita animale sulle terre emerse.
Per miliardi di anni il mondo vegetale è stato l’indiscusso dominatore del nostro pianeta e dovremo attendere la fine dell’era Precambriana, circa 600-700 milioni di anni fa per assistere alla comparsa in natura di un nuovo regno, quello animale.
La storia evolutiva del mondo vegetale si intreccia con quella del mondo animale, innumerevoli relazioni si costituiscono tra i due regni; gli animali sviluppano dipendenze alimentari dal mondo vegetale, si mimetizzano con esso, vi trovano riparo o terreno di caccia, vi ricercano piante curative o psicotrope, imparano ad evitare quelle tossiche e velenose mentre il mondo vegetale esplora le infinite nicchie ecologiche adattandovisi con gli stratagemmi evolutivi più disparati (servendosi a sua volta del mondo animale per le proprie finalità vitali, vedi ad esempio la riproduzione).
Tutta questa complessità ha alimentato, e continua ad alimentare innumerevoli esperienze che si stratificano nell’inconscio collettivo, depositario, come scrive Jung, delle “immagini primordiali, o “eredità delle epoche preumane”.
La vita animale si è evoluta nel nostro pianeta in un ambiente colonizzato dal mondo vegetale e le piante sono una componente fondamentale nell’immaginario dell’essere umano che irrompe nel suo mondo onirico, come pianta singola, parte di una pianta come fiori, frutti, radici, e così via o come agglomerato di piante.
I sogni a volte si sviluppano in paesaggi naturali dove la vegetazione, come tutti gli elementi del sogno, assume una specifica connotazione simbolica. Prati, savane, boschi, radure, foreste, paesaggi vegetali spogli o magnificamente fioriti come anche sterilmente desertificati spostano l’asse del contenuto simbolico su aspetti differenti per i quali sono necessarie le associazioni del sognatore per coglierne la specificità. In loro assenza possiamo comunque restare su di un piano collettivo attraverso delle amplificazioni del simbolo culturalmente determinate.
Pensiamo ad esempio ad un sogno ambientato in un prato: nell’immaginario delle culture europee, il prato si oppone al bosco in quella contrapposizione tra il domestico (dal latino domus = casa, famiglia) e il selvatico (dal latino sylva = bosco). Il prato è quindi il territorio addomesticato, posto sotto il controllo della domus, psichicamente vissuto come un luogo facilmente accessibile alla coscienza (in contrapposizione all'impenetrabilità del bosco). Possiamo allora ipotizzare che se un prato verde possa rappresentare una dimensione psichica dove la coscienza si muove su di un piano vitale e naturale, un prato rinsecchito potrebbe voler trasmettere l’immagine di un momento della vita dove la dimensione fertile e naturale è venuta meno.
Diverso è l’immaginario del bosco: ricordando l’incipit della Divina Commedia di Dante “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita”, l’ingresso in un bosco, con la sua dimensione misteriosa ed oscura potrebbe portarci nel simbolismo della dimensione inconscia, per come essa è vissuta dalla coscienza e gli esempi potrebbero continuare restando su questo piano amplificativo e quindi senza la pretesa di creare delle univocità di significato sulle immagine simboliche.
Così come il bosco, anche la singola pianta può apparire nei nostri sogni con una varietà di simbolismi di cui si carica l’immagine. Uno di questi, che quando si manifesta appare in tutta la sua numinosità, è quello dell’albero della vita.
Nell’autunno del 1913, Jung inizia ad avere una serie di visioni e di sogni con un contenuto catastrofico; onde di piena gigantesche travolgono l’Europa da nord a sud in una marea che diviene sangue. Sogni che gli divennero chiari allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il primo Agosto del 1914.
[2] Jung sogna per tre volte un’ondata di freddo polare che calava in piena estate ricoprendo di ghiaccio tutta la terra. Nel terzo di questa serie di sogni compare però un nuovo finale: “un albero fronzuto, ma senza frutti (il mio albero della vita, pensavo), le cui foglie, per effetto del gelo, si erano trasformate in dolci grappoli, pieni di un succo salutare, e io li coglievo e li distribuivo a una grande folla in attesa.”
Jung in questo periodo della sua vita stava attraversando una profonda crisi personale; c’era appena stata la rottura del rapporto con S. Freud e Jung si sentiva disorientato e in preda alle incertezze interiori su come affrontare il suo percorso umano e professionale. La crisi personale si intreccia in quella collettiva che porterà allo scoppio del primo conflitto mondiale ma proprio nel momento più buio della notte compare un albero che indica a Jung il suo percorso: “Ora il mio compito era chiaro: dovevo cercare di capire che cosa era accaduto, e fino a qual punto la mia esperienza personale coincideva con quella dell’umanità in genere. Pertanto mi sentii impegnato, per prima cosa, a sondare la mia stessa psiche, (…)”[3]
Jung associa l’albero del suo sogno al suo personale “albero della vita”, una potente immagine archetipica arborea irrompe nel suo inconscio a indicare la sua personale direzione individuativa.
Nella Genesi, libro dell’Antico Testamento, troviamo questo passaggio: “Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male” (Genesi 2,9)
L’albero della vita nella tradizione cristiana è l’albero che rappresenta l’immortalità dell’anima e la comunione con Dio. E’ un simbolo universale presente in molte culture: in quella norrena Yggdrasill, il grande frassino sorregge l’intero Universo, collega i nove mondi e mette in connessione il cielo, la terra e l’aldilà. Nell’ebraismo l’albero della vita (Etz Chaim) è un simbolo stratificato: presente nell’Eden accanto all’albero della conoscenza, rappresenta anche la Torah fonte della saggezza divina e vita per l’anima ed è presente nella mistica ebraica, soprattutto nella tradizione della Kabbalah dove è rappresentato da un diagramma mistico che rappresenta la struttura dell’Universo e il percorso che l’anima deve seguire per tornare a Dio. E’ rappresentato dalle 10 Sephiroth, sfere delle vita, emanazioni di Dio che indicano il percorso spirituale dell’anima dell’individuo.
Nelle culture germaniche un grande frassino, o una grande quercia veniva eletta a luogo sacro per tutto il clan e in alcune aree dell’Africa subsahariana un grande Baobab rappresenta il luogo sacralizzato sotto il quale celebrare le ritualità del villaggio; un albero viene così eletto in molte culture a rappresentazione dell’axis mundus, asse simbolico che allo stesso tempo sorregge il cosmo per come viene rappresentato e ne rappresenta il centro sacro, attorno a cui ruota la vita della comunità, collegamento tra l’uomo e Dio.
Il simbolismo dell’albero della vita riconduce all’immortalità dell’anima e al collegamento tra umano e divino, (divino che diviene rappresentazione psichica del Sé in quanto vissuto come numinoso da parte della coscienza) come anche della connessione tra l’Io e il Sé, rappresentante di quell’asse Io-Sé teorizzata da Erich Neumann su cui si consolida il percorso individuativo dell’individuo.
Un Sé di cui l’Io si può anche inflazionare (processo descritto bene nel testo “L’Io e l’archetipo” di Edward Edinger) come nel sogno del re babilonese Nabucodònosor citato in Daniele, 4 nel Vecchio Testamento dove compare un albero grande e robusto la cui cima giungeva fino al cielo, da dove si poteva vedere fin dall'estremità della terra e i cui rami erano belli con frutti abbondanti e vi era in esso da mangiare per tutti i viventi. Nel sogno una voce ordina perentoria “Tagliate l'albero e stroncate i suoi rami: scuotete le foglie, disperdetene i frutti. Fuggano le bestie di sotto e gli uccelli dai suoi rami”; un drastico ridimensionamento dell’inflazione dell’Io del re babilonese, tanto che il profeta Daniele, chiamato a corte per interpretare il sogno suggerisce al re di fare atto di sottomissione, riconoscendo il primato di un Dio superiore “finché tu riconosca che l'Altissimo domina sul regno degli uomini”[4] che diviene potente metafora, nella prospettiva junghiana, di una dimensione egoica che accetta di assoggettarsi ad un Sé superiore, teleologicamente attivato.
Il potente simbolo dell’albero della vita compare ancora [5]
Esistono oltre 300 specie di magnolia, originarie delle Americhe e dell’Estremo Oriente (Asia sud-orientale, dall’India alla Nuova Guinea). La prima Magnolia grandiflora fu portato a Nantes in Francia nel 1740[6] e da allora quest’albero si è diffuso in tutti i giardini d’Europa con i suoi meravigliosi fiori bianchi. Nel sogno di Jung l’albero della vita appare sotto forma di magnolia dai germogli rossicci, la pianta che collega l’est con l’ovest, le Americhe all’Oriente, ad indicare ancora una volta il centro verso il quale dirigere il flusso della propria vita, la direzione verso la quale acquisisce senso l’esistenza, la direzione che indica il cammino per tornare a casa, un cammino che porta ad essere ciò che si è, all'interno del processo autorealizzativo che Jung definì processo individuativo.
Individuazione e adattamento si intrecciano durante il processo di sviluppo della personalità dell’individuo e l’adattamento è un processo di cui la crescita personale si serve, permette di plasmare un’esistenza equilibrata tra il mondo in cui si vive e le istanze autorealizzative interne. L’adattamento si estrinseca sia in una dimensione introversa che in una estroversa, rivolto cioè ad adattare l’individuo ai bisogni psicologici personali come ad adattare l’individuo alle istanze socio-culturali della collettività. L’adattamento da una forma al personale percorso individuativo ed è necessario per poter integrarsi in una dimensione sociale.
Il rischio di un adattamento disequilibrato è però l’amputazione o la distorsione del proprio percorso di realizzazione psichica personale, allorché i processi adattivi compromettono sensibilmente quelli più specificatamente individuativi.
L’eccessiva conformità può impedire lo sviluppo dell’individuazione, poiché l'individuo non esplora le sue autentiche potenzialità, perdendo il contatto con la propria natura originale. Dall’altra parte se si trascura completamente l’adattamento sociale c’è il rischio di vivere una vita in conflitto con l’ambiente circostante.
La potatura può essere vista come l’immagine dei processi inevitabili di adattamento al mondo (esterno ed intrapsichico) o possono significare anche una “castrazione” di una naturale forma della pianta. Jung nel suo “Saggio di esposizione della teoria psicoanalitica” scrive che: “La psicoanalisi deve essere un metodo biologico, il cui fine è di conciliare il massimo benessere soggettivo con la più valida prestazione biologica. Poiché l’uomo non è solo individuo, ma anche membro della società, queste due tendenze insite nella sua natura non possono mai venire separate l’una dell’altra o subordinate l’una all’altra, senza che gliele vengano gravi danni. Nel migliore dei casi il malato esce dall’analisi com’è veramente, cioè in armonia con sé stesso, né buono né cattivo, com’è per l’appunto l’uomo in quanto essere naturale. Se per educazione s’intende il mezzo con il quale si dà ad un albero, potandolo, una bella forma artificiale, allora la psicoanalisi non è un metodo educativo. Chi invece ha un concetto superiore dell’educazione, considera migliore il metodo di coltivazione atto a far crescere l’albero in modo che esso adempia perfettamente le condizioni di crescita che la natura gli ha assegnato”
Il tema dell'albero compare nel sogno di Jung visto sopra e l'albero è un potente simbolo delle potenzialità individuative della persona che può comparire anche nel suo aspetto potenziale e non ancora espresso, sotto forma di seme o ghianda. James Hilmann ad esempio, per descrivere il nucleo del Sé inespresso, portatore di tutte le potenzialità dell’individuo, ne “Il Codice dell’Anima” usa la metafora della ghianda, non usa l’immagine di un embrione ma quella di un seme perché il seme, a differenza dell’embrione, può rimanere inattivo per anni. Nella fortezza di Masada in Israele, sono stati trovati dei semi di Dattero della Giudea (Phoenix dactylifera) vecchi di 2.000 anni che sorprendentemente nel 2005, posti nelle condizioni opportune, sono germinati. Un seme può attendere anni e solo quando trova il terreno adatto germoglia.
Recentemente degli scienziati russi sono riusciti a far germogliare e fiorire dei semi di una pianta di Silene stenophylla vecchi di 32.000 ritrovati nel permafrost siberiano. La vita non ha fretta, attende le condizioni minime in cui può esprimersi e lo fa.
Purtroppo in questa sede non abbiamo la possibilità di esplorare con sufficiente profondità questi e numerosi altri piani simbolici evocati dalle immagini del mondo vegetale. Possiamo però coglierne della particolarità che lo differenziano dalle immagini provenienti dal mondo animale che i miei colleghi hanno ben trattato oggi.
Gli svariati simbolismi del mondo vegetale sembrerebbero rimandare ad una dimensione innata e naturale, che nelle giuste condizioni è capace di svilupparsi, prosperare ed operare senza che intervenga necessariamente la volontà cosciente dell’individuo. Potremmo usare la metafora del Sistema Nervoso Autonomo chiamato anche Vegetativo come la parte del sistema nervoso che controlla le funzioni involontarie del corpo, come la respirazione, il battito cardiaco, la digestione e le funzioni viscerali. Se non intervengono fattori di disturbo, il sistema alle giuste condizioni funziona in maniera armonica e naturale. Il mondo vegetale ci porta su di un piano di vita primordiale, ciclica e silenziosa, che evolve lentamente e si rigenera.
Usando un linguaggio metaforico possiamo dire che nasciamo come seme di una pianta che posta in condizioni adatte germoglierà e crescerà secondo la natura della sua specie, fiorendo e fruttificando se previsto. Come una pianta possiamo però andare incontro ad una serie di impedimenti come trovarci in un terreno non adatto, non avere luce o spazio a sufficienza, essere attaccati da malattie e parassiti, subire potature o mutilazioni da parte di agenti naturali, essere divorati da un animale e così via. La pianta non ha la possibilità di spostarsi alla ricerca di condizioni ottimali ma è capace di enormi sforzi adattivi per crescere con la condizioni ambientali che le sono date.
Allo stesso tempo il nostro stesso sviluppo avviene in paesaggi vegetali che ne sottolineano le qualità e la vitalità e dove incontriamo il mondo animale, spesso associato agli istinti, all’energia vitale e alle emozioni; essi rappresentano spesso aspetti più immediati e dinamici della psiche, collegati alla vitalità, all’impulsività e alla relazione con gli istinti di base
[1] O. Sacks, Il fiume della coscienza, Adelphi, 2018, 32
[2] In “Ricordi, sogni, riflessioni” Jung specifica che questa sequenza di sogni avvenne in Aprile, Maggio e Giugno del 1914.
[3] C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, BUR, 2021, 220
[4] Daniele, 4,22
[5] C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, BUR, 2021, 245
[6] A. Cattabiani, Florario, Oscar Mondadori, 1996, 663
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