COMPITI DIVERSI NELLE DIVERSE FASI DELLA VITA

 

 

 

Giacomo, un paziente di 43 anni, viene alla prima seduta in studio con una domanda sul senso della propria esistenza: “Dottore cosa mi succede ? finora sembrava che tutto andasse bene nella mia vita, mi sono concentrato nel lavoro, che và bene con un’ottima posizione professionale, ho investito nella mia famiglia, nei miei due figli, ho la mia casa… ma negli ultimi anni tutto ciò ha perso sempre più importanza, non riesco a godere di quello che ho, mi sento sempre insoddisfatto…”

 

 

 

La domanda di Giacomo, comune a molte persone in un certo punto della loro vita, ci riporta ad una considerazione generale: la vita ci chiede compiti diversi nelle diverse età in cui la attraversiamo. Per questo nelle società tradizionali, come nella nostra società in epoca pre-industriale, esistono dei riti di passaggio, delle cerimonie che accompagnano l’individuo attraverso queste differenti fasi dell’esistenza.

 

La vita dell’essere umano è infatti caratterizzata da periodi caratteristici, fasi individuabili dai diversi compiti che la vita ci riserva, dalla maturazione dell’organismo, sottolineata dai riti di passaggio che dovrebbero scandire la fine di una fase e l’entrata in un'altra e che purtroppo sono pressoché scomparsi nella nostra società odierna.

 

Nelle società in cui questi riti di passaggio ancora esistono e ancora sono fortemente vissuti dalla popolazione, le diverse epoche della vita sono fortemente marcate. Un’epoca della vita si esaurisce e una nuova epoca inizia senza nostalgici tentativi di tornare ad una condizione che non è più.

 

Scrive LUIGI ZOJA[1] in Nascere non basta[2] (al quale si rimanda il lettore per un approfondimento sulla tematica della mancanza dei riti di passaggio nella società odierna) che un rito di passaggio possiede sempre tre elementi caratteristici: la sacralità, l’irreversibilità e la mancanza di alternative.[3] Il rito è considerato ed accettato come sacro nella società di appartenenza e quindi è inviolabile, non lascia alternative a chi appartiene alla data società perché ne sancisce l’appartenenza e quindi l’individuo non può sottrarsene. Infine è irreversibile, è l’attraversamento di un ponte che poi crolla alle nostre spalle, un porta che si richiude dietro di noi, lasciandoci la sola alternativa di andare avanti. E’ questa la dimensione che, venuta a mancare nella società odierna, contribuisce a creare degli adulti eterni adolescenti, ancora impegnati a tenere viva una giovinezza che non vi è più, incapaci di attraversare il ponte che dovrebbe portarli alla vita adulta. Vita adulta che è la fase di un processo, perché la vita “non è un flusso uniforme, bensì si articola in epoche diverse, in se stesse concluse”.[4]

 

 

 

 Diverse discipline individuano diverse fasi della vita. La psicologia non è da meno, e anche questa disciplina studia e suddivide l’esistenza dell’uomo in fasi ben caratterizzate. E’ ben inteso che la vita di una persona è un continuum in evoluzione in qui i diversi stadi non sono camere stagne, periodi sospesi da tutto ciò che è stato prima e da quello che in progetto sarà dopo, ma in un certo senso, la naturale evoluzione l’uno nell’altro.

 

Come scrive il filosofo ROMANO GUARDINI[5] (1885 – 1968) nel suo libro Le età della vita: “Queste fasi costituiscono insieme la totalità della vita, ma non nel senso che la vita si compone di queste; la vita è sempre presente: all’inizio, alla fine e in ogni momento.”[6]

  

Sulla individuazione di queste fasi della vita, si è dedicato anche C. G. Jung, in uno dei suoi scritti, dal titolo ‘Gli stadi della vita’[7], pubblicato nel 1930. L’autore inizia la sua riflessione sui diversi stadi psicologici della vita,  con una domanda: “perché l’uomo, contrariamente a tutto il mondo animale, si pone dei problemi ?”[8]

   

Secondo l’autore, il porsi problemi nella vita, è una conseguenza del fatto di avere una coscienza. “Non esistono problemi senza coscienza”[9] e quindi per capire perché l’uomo si complica l’esistenza navigando tra un problema e l’altro, dobbiamo interrogarci del perché l’uomo possiede una coscienza.

 

Secondo lo stesso autore, l’origine della coscienza andrebbe ricercata nella nascita dei processi conoscitivi che possiamo osservare nei bambini. In questo senso, l’ontogenesi del processo conoscitivo, ci mostrerebbe, dal punto di vista filogenetico, lo svolgersi del processo. Scrive l’autore: “quando il fanciullo riconosce qualcuno o qualche cosa, noi ci rendiamo conto che egli ha coscienza[10]

  

E’ lo stesso processo, secondo Jung, che ha portato l’uomo primitivo, sotto la pressione della selezione naturale, a sviluppare ed evolvere una coscienza del mondo e la capacità di riflettere su esso. La nascita della coscienza nel bambino sarebbe legata al processo di riconoscimento dell’oggetto. L’atto del conoscere e del ri-conoscere, implica il riorganizzare la nuova percezione con quelle già esistenti di modo che, la conoscenza implica l’introduzione di nuovi contenuti psichici, che si collegano e riorganizzano quelli preesistenti. Ne consegue, che il neonato, passa da una prima fase in cui non esiste né oggetto, né relazione oggettuale (il cosiddetto “stadio della non differenziazione” o “stadio senza oggetto” di Spitz)[11], alla creazione delle prime relazioni oggettuali che costituiscono, secondo Jung, i primi “isolotti di coscienza, analoghi a rare luci o a oggetti illuminati in una notte profonda”[12]. Questi primi ricordi racchiudono anche i contenuti che si riferiscono al soggetto che si rappresenta a che si comincia a chiamare con il pronome Io.

 

L’evoluzione della coscienza, progredisce quindi velocemente, con la voracità con la quale il bambino introietta le esperienze del mondo, riorganizzandole in un processo di continuità della memoria che agevola la strutturazione dell’Io nel bambino. Il bambino inizia quindi a parlare di se stesso in prima persona. Scrive Jung: “A questo stadio comincia la continuità della memoria. Essa non sarebbe in ultima analisi che una continuità di ricordi dell’Io”[13]

  

Costituitasi una coscienza, la psiche del bambino evolve, staccandosi progressivamente dalla dipendenza con i genitori. Jung individua quattro momenti essenziali nel processo di evoluzione psichica dell’essere umano, che costituirebbero, dal punto di vista psicologico,  le quattro fasi della vita:

1 - Una prima fase che và dalla nascita alla pubertà. In questo stadio c’è una forte dipendenza fisica e psicologica dai genitori che provvedono alle necessità del figlio. Lo sviluppo della coscienza avviene in modo esplorativo ed esperienziale senza che ci sia autocoscienza sulla unicità della propria persona e quindi sulle pulsioni che ci indirizzano verso delle esperienze ben precise.

 

2 - Una seconda fase che parte dalla pubertà, e arriva fino a circa la metà della vita biologica dell’uomo e cioè ai 35-40 anni. Con l’emergere della sessualità, il soggetto è prepotentemente spinto verso il mondo, e allo stesso tempo ad allontanarsi dalle figure genitoriali. L’individuo incontra e spesso si scontra con le esigenze della vita, che possono sostenere le pulsioni che vogliono realizzare la sua natura o possono frustrarle in un impatto crudo con il senso di realtà. L’individuo che si deve individuare, si trova in uno stato di tensione tra messaggi che arrivano dalla società, esigenze pratiche e realtà della vita, e pulsioni interne che lo vorrebbero auto-realizzare. Essendo la persona, in questo stadio, prevalentemente proiettata all’esterno, frequentemente sono i messaggi sociali quelli che condizionano e impostano le esperienze di vita. Realizzarsi agli occhi degli altri,  a livello di immagine personale, economicamente, come ‘status sociale’, sono spesso gli imperativi seguiti. L’individuo è completamente assorbito dal fare, produrre, ‘dimostrare che’.

A tal proposito Jung ricorda che: “Si dimentica una cosa essenziale; cioè che non si raggiunge lo scopo sociale, se non a scapito dell’intera personalità. Molta troppa vita che avrebbe anche potuto essere vissuta, è restata forse nel ripostiglio dei ricordi polverosi; spesso sono carboni ardenti sotto la cenere grigia”[14].

 

3 - Una terza fase che ha inizio con una crisi esistenziale, più o meno manifesta, che si manifesta attorno ai 35-40 anni, nel mezzo della vita. In questa fase, la persona inizia ad interrogarsi su aspetti della propria vita, possono riemergere passioni e tratti giovanili, le cose del mondo,  su cui si sono investite tutte le proprie energie vitali perdono di importanza, o al contrario, per una sorta di ‘meccanismo difensivo’ diventano dogmaticamente fondamentali e indiscutibili. Spesso ci si inizia ad interrogare sul senso della propria esistenza. L’assetto della propria vita può venire messo in discussione e questa fase rappresenta la possibilità di rivedere le proprie priorità nella vita per mettere al centro la realizzazione della propria natura.

 

4 - Infine una quarta fase che corrisponde alla vecchiaia. L’individuo si prepara al tramonto della sua vita, scrive Jung: “Per colui che invecchia il considerare seriamente se stesso rappresenta un dovere e una necessità. Il sole ritira i suoi raggi per illuminare se stesso, dopo aver diffuso la sua luce sul mondo”[15].

In questa fase, il sole tramonta e la persona sprofonda lentamente nel buio dell’incoscienza dalla quale è emersa.[16] Il sole che tramonta si ricongiunge al buio dal quale lo stesso sole è sorto.

 

 

 

 

I quattro stadi della vita descritti da Jung, possono essere paragonati, per analogia, ai quattro stadi della vita prescritti da millenni dalla tradizione vedica dell’Induismo e riscontrabili nella società Indiana.[17] Le prescrizioni sono dirette in particolar modo agli appartenenti alla casta dei bramini, anche se possono essere adottati dagli appartenenti alle altre caste, senza comunque obbligatorietà alcuna. Il primo stadio, della fanciullezza, termina ad otto anni, quando il giovane bramino diviene allievo di un maestro religioso (guru), che lo istruisce nei testi sacri. Completati gli studi, il giovane si sposa ed entra nel secondo stadio della vita; alleva i figli, adempie i suoi doveri di casta, lavora, si gode i piaceri della vita.

 

Quando i sui nipotini iniziano a crescere, attorno ai cinquant’anni,  entra nella ‘fase contemplativa’ della sua vita. Diviene un vanprasth[18], e si incammina verso il proprio essere. Da solo o con la moglie, si ritira in un luogo appartato quale un bosco, un convento o un centro religioso (ashram) per iniziare un cammino interiore, per abbandonarsi sempre più alla meditazione e alla preghiera. Il quarto e ultimo stadio, è quello dell’ascetismo vero e proprio. Il vecchio diventa un sannyasin, un ricercatore del vero. Lascia tutto ciò che ha e inizia a vagabondare senza fissa dimora, vivendo d’elemosina e dedicandosi interamente alla conoscenza di se stesso. Scrive OSHO[19]: “Adesso non è più sufficiente che tu volga lo sguardo verso l’Himalaya, devi metterti in viaggio, devi proprio andarci. La vita volge al termine, la morte si avvicina sempre di più.”[20] Tutti i legami terreni sono sciolti e la persona carica d’anni, si dedica ad incontrare ‘il divino’.

 

Da questi esempi possiamo dedurne che la vita assegna compiti diversi alle sue diverse età. Ogni stagione dona i suoi frutti e l’arte di vivere richiede il saperli cogliere al momento opportuno. Dopo la realizzazione delle proprie aspirazioni nel mondo, ci viene richiesto di volgere verso noi stessi le energie per dotare di senso l’esistenza che si avvia lentamente al tramonto. L’entrata nell’età della maturità, porta con sé la domanda biblica: ‘dove sei ?’. A che punto è la tue esistenza ? L’inquietudine ci sprona a percorrere il sentiero che abbiamo dentro di noi. Accettando la nuova fase della vita senza nostalgici tentativi di far rivivere un passato che non è più, perché: “invecchia nella giusta maniera soltanto chi accetta interiormente di diventare vecchio”.[21]

  

La ricompensa sarà il ritorno ad una casa dagli odori famigliari, in cui riposare “vecchio e sazio di giorni” (Giobbe 42,17), consapevoli di aver bevuto sino all’ultima goccia, il calice che ci è stato porto.

 

Concetto di “adultità” e di “maturità” al maschile e al femminile

 

L’essere umano, nel corso della sua vita, passa dalla condizione di neonato a quello di adulto, per maturazione di apparati e dotazioni biologiche che sviluppano organi, ghiandole, tessuti, funzioni. Il tempo accompagna quindi il neonato verso la vita adulta. Ma basta il tempo per fare automaticamente di un adulto una persona matura? Adultità e maturità sono due termini spesso sovrapponibili che hanno però in sé delle sfumature di significato diverse. Sicuramente non sono termini omologhi tanto è che si può parlare di adulto immaturo come di bambino maturo. L’analisi etimologica dei due termini ci evidenzia delle differenze di significato. Nel vocabolario etimologico della lingua italiana di Ottorino Pianigiani, troviamo che adulto è un termine che deriva dal latino adultus, contratto da ad-òlitus  verbale di  ad-òleo cioè accrescere, nutrire, con il significato quindi di ‘cresciuto negli anni’, ‘sviluppato’. Maturo deriva invece dal latino maturus, che contiene la stessa radice di matu-tinus, mattino, entrambi contenenti la radice   (= misurare). L’accento è quindi posto sul significato di ciò che è giunto presto ed è adesso a compimento, a perfezione.

 

Un adulto è un essere umano in cui il tempo ha portato alla crescita e allo sviluppo delle sue componenti biologiche e le funzioni che queste esprimono. Il termine di maturità, include invece delle accezioni più ampie, include il concetto di qualcosa che si è compiuto, che alla fine è giunto alla perfezione.  Si potrebbe dire che l’adultità semplicemente accade mentre la maturità è anche il frutto di una ricerca personale che coinvolge l’intero individuo in tutte le sue componenti. Solo guardando l’essere umano in chiave olistica possiamo cogliere il senso della  maturità.

 

Usando le parole di un indagatore dell’animo umano quale è stato Osho, leggiamo che: “L’invecchiamento non è un qualcosa che fai tu, è un fatto biologico. Ogni bambino che nasce, con il passare del tempo invecchia. La maturità è qualcosa che immetti nella tua vita, qualcosa che scaturisce dalla tua consapevolezza. Quando una persona invecchia con piena consapevolezza, diventa matura.”[22]

  

Con il termine maturità non si fa riferimento quindi alla maturazione del solo repertorio biologico ma di tutte le componenti che assieme formano la persona. Scrive Galimberti nel suo Dizionario di psicologia alla voce ‘maturità’: “Compimento del processo di maturazione a livello fisico con l’adeguato sviluppo dell’organismo, psichico comprensivo della componente emotiva e di quella cognitiva, morale con il raggiungimento dell’autonomia per avvenuta interiorizzazione dell’obbligazione, e sociale per la capacità di interagire con i propri simili a partire dalla comune accettazione di norme superindividuali.”[23]

  

Partendo dal presupposto che con il termine ‘uomo’ si intende, nel presente lavoro, il concetto di ‘essere umano’ ci sono delle differenze di genere che si esprimono nel percorso di maturazione dell’individuo? Sicuramente sì, e iniziamo le nostre riflessioni dalle differenze biologiche tra i due generi che si intrecciano e mutualmente influenzano differenze psicologiche, predisposizioni e scelte di vita, modo di porsi e di affrontare la realtà.

 

La donna è diversa dall’uomo e l’uomo è diverso dalla donna. Esiste, è vero, una parte maschile nella donna e una parte femminile nell’uomo come esistono donne più o meno mascolinizzate e uomini più o meno femminilizzati. Ma per poter parlare di donna mascolinizzata o uomo femminilizzato dobbiamo avere avuto la possibilità di attribuire a delle caratteristiche una connotazione femminile o maschile. E’ l’insieme di queste ‘qualità’ del femminili o del maschile a caratterizzare l’essere umano maschio e femmina.

  

Pur considerando che ogni essere umano compie un percorso nella vita che è unico e irripetibile, ci sono delle caratteristiche comuni di genere che caratterizzano i passaggi nella vita dell’uomo o della donna. Per una analisi approfondita e dettagliata sugli aspetti tipici della sfera psichica  della donna, si veda l’opera della HELENE DEUTSCH (1884-1982), La psicologia della donna[24], dove viene esaminato, dal punto di vista dell’evoluzione psicologica, l’intero arco di vita del femminile, dalla prepubertà al climaterio. Nel capitolo dedicato appunto al climaterio, l’autrice evidenzia come la donna, verso i 40-50 anni, entra nella fase preclimaterica che la porta ad affrontare l’evento della menopausa, una ferita narcisistica data dalla cessazione della possibilità di procreare e dalle modificazioni corporee che ne sono la conseguenza. E’ in questa fase della vita che alla donna è richiesta una riorganizzazione della propria esistenza, delle priorità e una riscoperta degli interessi personali, sacrificati al desiderio di maternità.

  

Da questo punto di vista, l’orologio biologico della donna è molto più preciso nel segnalare l’entrata in quella terza fase della vita, evidenziata da Jung come l’età della crisi, della riorganizzazione dei propri valori, della ricerca di un senso diverso della propria esistenza. Mentre la donna sembra affrontare questa fase della vita con la presa di coscienza della cessazione della propria capacità di generare, l’uomo spesso vi entra una volta raggiunti gli obiettivi sociali che si era prefisso in gioventù. Entrambi smettono di generare, figli od opere nel mondo, per dedicarsi alla sistemazione dell’opera prima, del progetto individuale che ognuno di noi rappresenta.

 

 

Questa fase può attivare, anche nei sogni, delle figure archetipiche che spesso sono diverse per genere del sognatore. Nell’uomo uno dei miti ricorrenti è quello del viaggio dell’eroe mentre nella donna può essere l’incontro con la vecchia saggia, dispensatrice di doni e consigli. Questi miti sembrano suggerire che il percorso di individuazione dei due generi passa attraverso esperienze diverse. La messa alla prova dei propri valori, la sconfitta del drago, il contatto rispettoso con la natura e i suoi animali, l’affrontare il processo di morte e rinascita, la protezione e il rispetto del femminile nell’uomo. L’incontro con la Grande Madre, la vecchia saggia, il sapere usare e padroneggiare la propria astuzia e discernimento, il contatto con la forza primordiale del proprio femminile, nella donna.

 

JEAN SHINODA BOLEN[25], una analista Junghiana tuttora vivente, ha scritto due opere  sugli archetipi del maschile e del femminile: Le dee dentro la donna[26] e Gli dei dentro l’uomo[27]. E’ interessante prendere in rassegna gli archetipi enunciati con le loro qualità per avere una impressione d’insieme sulle differenze tra i due generi:

 

Le dee dentro la donna[28]:

 

  • Artemide: dea della caccia e della luna, competitiva e sorella
  • Atena: dea della saggezza e dei misteri, stratega e “figlia del padre”
  • Estia: dea del focolare e del tempio, vecchia saggia e zia nubile
  • Era: dea del matrimonio, donna fedele o moglie
  • Demetra: dea delle messi, nutrice e madre
  • Persefone: fanciulla e regina degli Inferi, donna ricettiva e “bambina della mamma”
  • Afrodite: dea dell’amore e della bellezza, donna creativa e amante

 

 

 

Gli dei dentro l’uomo[29]:

 

  • Zeus: dio del cielo. Il regno della volontà e del potere
  • Poseidone: dio del mare. Il regno dell’emozione e dell’istinto
  • Ade: dio del mondo sotterraneo. Il regno delle anime e dell’inconscio
  • Apollo: dio del sole. Arciere, dispensatore della legge, figlio prediletto
  • Ermes: messaggero degli dei e guida delle anime. Dio della comunicazione, briccone, viaggiatore
  • Ares; dio della guerra. Guerriero, danzatore e amante
  • Efesto: dio della fucina. Artigiano, inventore, solitario
  • Dionisio: dio del vino e dell’estasi. Mistico, amante e girovago

 

 

 

Esistono quindi, a livello psichico, due nature differenti: una natura del ‘femminile’ e una natura del ‘maschile’ con funzionalità e caratteristiche differenti.

  

Esiste però, come già citato, una istanza psichica, di natura maschile nella donna (chiamata animus nella psicologia junghiana) ed una di natura femminile nell’uomo (chiamata anima)  

 

Proprio perché queste componenti sono dotate di nature differenti, Jung teorizza che il percorso di individuazione deve arrivare ad assimilare le due nature, nella psiche della stessa persona. [30], lo Hierosgamos[31], le nozze sacre in cui si celebra la congiunzione degli opposti dentro di sé, ritirando le proiezioni dal mondo e portando a compimento l’opera prima nel buio della nostra psiche.

 

E’ quindi l’unione di queste diversità, l’incontro tra gli attributi del maschile e quelli del femminile, l’accettazione del proprio femminile nell’uomo e del proprio maschile nella donna,  l’unione di anima e animus, che Jung auspica all’interno del processo di individuazione.

 

Diversità quindi che uniscono, arricchiscono, completano.

  

 

La presa di coscienza dei propri valori

  

 

Il genio può essere confinato dentro il guscio di una noce

 

e ciò nonostante abbracciare la pienezza della vita

 

(Thomas Mann)

 

Non è bene sminuire ciò che non si comprende

 

(James Hilmann)

 

 

 

Ognuno di noi è depositario di potenziali unici e irripetibile che chiedono incessantemente di essere espressi e sviluppati nel mondo. Ma come fare a riconoscerli? come fare a contattare i nostri talenti, le nostre vocazioni, le nostre potenzialità? Come fare ad intraprendere il viaggio alla scoperta dei tesori che sono custoditi in ogni persona?

 

Possiamo rappresentare questo viaggio attraverso il concetto di individuazione Junghiano, un viaggio per contattare il Selbst, il Sé racchiuso dentro di noi, depositario dei tesori e delle ricchezze che ci sono stati donati. Scrive JAMES HILMANN, analista Junghiano vivente: “Io dico che siamo stati derubati della nostra vera biografia, il destino iscritto nella ghianda, e che entriamo in analisi per riappropriarcene”[32]

 

 

 

Non vorrei però proporre il messaggio che la terapia psicoanalitica sia l’unica strada che ci porta a contattare le nostre originali individualità; è un percorso come ce ne sono altri. Ognuno ricerca il suo proprio percorso all’interno del modello o dell’esperienza che più riesce a stimolarlo in tal senso. Il metodo è il mezzo, non il fine. Il fine è quindi entrare in contatto con i nostri talenti. Ma da dove provengono questi talenti ? ed esistono veramente in ognuno di noi?

 

Per quanto riguarda la risposta alla seconda domanda, nella posizione di chi scrive, è che non veniamo al mondo come una ‘tabula rasa’ ma depositari di individualità, progetto e specificità, che chiedono di essere espresso nel corso della propria esistenza.

 

Sulla questione della provenienza di queste individualità, si potrebbe asserire che i talenti sono la conseguenza di una serie di fattori, genetici ed ambientali che creano una condizione unica nel singolo essere umano. Già di per sé questo basterebbe a fornire una base scientifica di spiegazione su cui concentrare i contributi della genetica, della biologia, delle neuroscienze, della sociologia, delle scienze dell’educazione, della pedagogia, di molte correnti della psicologia. 

 

Ma, come scrive Hilmann:  “se accetto l’idea di essere l’effetto di un impercettibile palleggio tra forze ereditarie e forze sociali, io mi riduco a mero risultato. Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o hanno omesso di fare e alla luce dei miei primi anni di vita ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima. La vita che io vivo sarà la sceneggiatura scritta dal mio codice genetico, dall’eredità ancestrale, da accadimenti traumatici, da comportamenti inconsapevoli dei miei genitori, da incidenti sociali.”[33]

 

 

 

Ognuno di noi può accettare o meno di fermarsi a questa visione della vita. Noi pensiamo che questa prospettiva ci condanni ad una intollerabile condizione esistenziale, ad un ipertrofico determinismo, che, come scrive Hilmann, fa dell’essere umano uno sterile ‘mero risultato’, una ‘vittima’ passiva di eventi esterni; condizione da cui si può uscire solo alzando lo sguardo verso una visione che trascende il razionalismo logico-scientifico.

 

Secondo lo psicologo statunitense JEROME BRUNER (1915 – vivente) ci sono:  “due tipi di funzionamento cognitivo, due modi di pensare, ognuno dei quali fornisce un proprio metodo particolare di ordinamento dell’esperienza e di costruzione della realtà”[34]

 

 

 

Il primo modo di pensare è quello paradigmatico o logico-scientifico, che: “persegue l’ideale di un sistema descrittivo ed esplicativo formale e matematico. (…) Si occupa delle cause di ordine generale e del modo di individuarle e si serve di procedure atte ad assicurare al verificabilità referenziale e a saggiare la verità empirica. Il suo linguaggio è regolato dai requisiti della coerenza e della non contraddizione”.[35]

 

 

 

Il secondo modo di pensare è quello narrativo, che produce racconti, drammi, miti. Si occupa delle vicissitudini delle intenzioni umane. Non è costretto dai limiti della coerenza e non contraddittorietà interna per cui può spaziare su nuovi territori e lasciarsi affascinare dalle narrazioni fantastiche.

 

E’ questo secondo modo di pensare, quello narrativo che ci permette di indagare sul mistero che è la vita. E’ solo così che la vita diviene ierofania. Come scrive Jung: “Quando la mente esplora il simbolo, essa viene portata a contatto con idee che stanno al di là delle capacità razionali. La ruota può condurre i nostri pensieri al concetto di un sole ‘divino’, ma a questo punto la ragione deve ammettere la propria incompetenza: l’uomo è incapace di definire un essere ‘divino’. Quando, con tutte le nostre limitazioni intellettuali, noi chiamiamo qualcosa ‘divino’, non abbiamo fatto altro che attribuirgli un nome che al massimo può esser fondato sopra ad un credo, non su prove di fatto”[36].

 

 

 

Per questo dobbiamo accedere ad una modalità di pensiero che vorremmo definire come ‘razionalismo intuitivo-trascendente’. Razionalismo intuitivo potrebbe sembrare a prima vista un ossimoro. Ma le due cose non sono incompatibili. Se per il razionalismo, è con la ragione umana  che si può accedere ad ogni conoscenza, possiamo osservare come la ragione umana non elabori solo attraverso un continuum di processi logici ma possa anche procedere a balzi, sospinta dall’intuizione[37].

 

 

 

Il pensiero intuitivo riesce ad arrivare dove l’occhio del ragionamento logico brancola nel buio. L’utilizzare il pensiero scientifico, con la sua necessità di dimostrazione di coerenza su ogni passaggio che porta alla conclusione, può dimostrarsi un limite nell’esplorare dimensioni perlopiù sconosciute. La scienza può spiegare solo ciò che conosce ma non può, per evidenza, spiegare ciò che non conosce ancora. Il rischio è quello di chiudersi all’interno della gabbia dello scientismo, dalla quale è impossibile spiccare il volo verso orizzonti sconosciuti.

 

E’ indispensabile liberarci dalle zavorre del ragionamento scientifico per poter incontrare l’ignoto. Il filosofo austriaco PAUL K. FEYERABEND[38] (1924 – 1994), propone la sua teoria di una ‘scienza anarchica’, libera dai vincoli di non contraddizione interni perché questi non aprono la possibilità di accedere a nuove teorie o nuove visioni del mondo, anche in contrapposizione con quelle comunemente accettate.

 

Scrive il filosofo che “La scienza è un’impresa essenzialmente anarchica: l’anarchismo teorico è più umanitario e più aperto a incoraggiare il progresso che non le sue alternative fondate sulla legge e sull’ordine”[39]

 

 

 

Quando Feyerabend si chiede poi se sia desiderabile accettare esclusivamente una tradizione che si regge su ‘fatti scientifici’, tenuti in vita da norme rigorose la sua risposta è una secca negazione. Ecco come argomenta questo rifiuto il filosofo viennese: “Ci sono due ragioni per cui una tale riposta sembra appropriata. La prima ragione è che il mondo che desideriamo esplorare è un’entità in gran parte sconosciuta. Dobbiamo perciò mantenere aperte le nostre scelte e non dobbiamo fissarci limiti in anticipo.  (…)  La seconda ragione è che una formazione scientifica come quella descritta sopra (e quale è praticata nelle nostre scuole) non può essere riconciliata con un atteggiamento umanitario. Essa è in conflitto con quella ‘educazione dell’individualità’ la quale sola produce, o può produrre, essere umani ben sviluppati”[40]

 

 

 

L’invito è quindi quello di tenere aperte tutte le possibilità, di esplorare la nostra condizione esistenziale liberi da preconcetti, da certezze, da teorie.  Lasciarci stupire dal mistero che è la vita, senza volerlo rinchiudere all’interno di una teoria.

 

Questo invito è rivolto soprattutto all’uomo moderno del mondo occidentale in cui il pensiero logico-scientifico è sicuramente quello più ipertrofizzato in quanto coltivato e incoraggiato sin dalla più tenera età. Questa ipertrofizzazione ha portato incredibili vantaggi con le scoperte scientifiche che ne sono conseguite. Ha però sacrificato la capacità di leggere il simbolico degli eventi. La capacità di farsi guidare nella vita dai sogni, come è tradizione nei nativi americani[41] o presso gli aborigeni australiani, leggere il messaggio degli spiriti attraverso il simbolismo di ogni evento della vita, come è consuetudine in molte etnie dell’Africa nera[42] o ancora scrutare le stelle alla ricerca dei loro messaggi come nei Dogon del Mali. Tutto il patrimonio della tradizione sciamanica, analizzata magistralmente da Mircea ELIADE (1907 - 1986) nella sua opera Lo sciamanesimo[43], è lontanissimo dal pensiero dell’europeo moderno che ha perso anche il collegamento con il potente simbolismo della tradizione cristiana[44], sacrificato al lume della ragione. Riaprire quindi  il ‘terzo occhio’[45] per poter intraprendere il cammino. Ma chi ci può guidare in questo viaggio se bendiamo gli occhi razionali con cui guardiamo usualmente al mondo? e come riconoscere la meta, privi del conforto del ragionamento logico-scientifico? Affidandoci ai richiami del Sé. Il Sé, nella concezione Junghiana, non è un contenitore privo di vita ma un centro di organizzazione della vita psichica dell’individuo, vivo e vitale, in continua interazione con le altre componenti della psiche.

 

Marie-Luise von FRANZ (1915 – 1998), lo definisce un ‘principio interiore di guida’[46] che si esprime ad esempio nei sogni del soggetto. La stessa autrice, scrive a proposito del Sé:  “Il centro organizzativo, da cui dipende l’effetto regolarizzatore, è una specie di ‘atomo nucleare’ del nostro sistema psichico. Si potrebbe definirlo un centro di creazione e di organizzazione, il centro di origine delle immagini oniriche. Jung chiama tale centro ‘sé’ e lo descrive come costituente la totalità della vita psichica (…). Nel corso delle varie epoche gli uomini hanno avuto una conoscenza intuitiva dell’esistenza di tale centro interiore. I Greci lo chiamavano l’intimo daimon dell’uomo; in Egitto, esso trovava espressione nel concetto dell’anima di Ba; e i Romani lo veneravano come il genius innato a ogni individuo.“[47]

 

 

 

Hilmann riprende in una sua opera, Il codice dell’anima[48],  il mito greco del daimon, come raccontato nel X libro della Repubblica di Platone:“Quando tutte le anime ebbero scelto la propria vita, si presentarono a Lachesi secondo l'ordine del sorteggio; a ciascuna ella assegnava come custode della sua vita ed esecutore della sua scelta il demone che si era preso. Questi per prima cosa guidava l'anima al cospetto di Cloto, perché sotto la mano di lei e sotto il volgersi del fuso sancisse il destino che aveva scelto al momento del sorteggio; dopo che aveva toccato il fuso la conduceva al filo di Atropo, perché rendesse immutabile la trama filata. Da lì l'anima andava senza voltarsi ai piedi del trono di Ananke (necessità, fato. N.d.a.) e lo superava; quando anche le altre anime furono passate oltre, si avviarono tutte assieme verso la pianura del Lete in una calura soffocante e tremenda, poiché il luogo era spoglio di alberi e di tutto ciò che nasce dalla terra. Quando ormai era scesa la sera, si accamparono presso il fiume Amelete, la cui acqua non può essere contenuta in nessun vaso. Poi tutte furono costrette a bere una certa quantità di quell'acqua, ma le anime che non erano protette dalla prudenza ne bevevano più della giusta misura; e chi via via beveva si dimenticava ogni cosa.”[49]

 

 

 

Secondo Hilmann quindi ognuno di noi viene al mondo con un proprio progetto, una ghianda, scelta dall’anima stessa, che potremmo immaginare come contenuta nel Sé della persona. Purtroppo l’anima incarnandosi nel mondo dimentica questo progetto. Per questo le viene assegnato un daimon, uno spirito che le ricorda il contenuto del suo progetto. L’autore si rifà poi al filosofo neoplatonico  PLOTINO (205 – 270 d.C.) , secondo il quale l’anima si sceglie il corpo, i genitori, la cultura di appartenenza e l’epoca storica adatti alle sue necessità, e atti a fornire quegli stimoli che possano far emergere il progetto che giace in potenza.

 

 

 

Affidarci ai richiami del Sé, contattare la propria ‘ghianda’ interiore, detentrice dei nostri talenti, facendoci guidare dalla voce del nostro daimon interiore richiede la capacità di usare un pensiero ‘poetico’, capace di accogliere il linguaggio della psiche fatto di simboli, di miti, di immagini, ma anche capace di guardare la realtà in maniera simbolica. E’ a questo tipo di pensiero a cui dobbiamo affidarci per poter seguire i richiami del nostro Sé. Esercitando quella funzione della coscienza che Jung ha chiamato ‘intuizione’. L’intuito è, nel modello Junghiano, una delle quattro funzioni della coscienza (le altre tre sono sensazione, pensiero e sentimento). Questa funzione è così descritta dall’allieva di Jung, la dott.ssa  J. JACOBI (1890 – 1973): “l’intuizione percepisce (…) per mezzo della capacità di una ‘percezione interiore’ inconscia delle possibilità insite nelle cose. (…) l’intuitivo non porrà attenzione ai particolari ma, ma percepirà subito senza sforzo, l’intimo senso di un fatto, le sue possibili connessioni e conseguenze.”[50]

 

 

 

Indagare la realtà con l’intuito ci consente di liberarci dal giogo del pensiero logico-scientifico per esplorare quello che è oltre ciò che già conosciamo, e aprirsi all’imprevisto, a ciò che ci sorprende e ci lascia stupiti, è la capacità di essere sensibili agli eventi sincronici[51], recepire i messaggi simbolici che stanno dietro agli accadimenti, abbandonarci agli eventi quando ‘sentiamo’ che ci stanno portando nella giusta direzione, anche se al momento non riusciamo a capirli. Affidarci al simbolismo dei sogni.

 

 

 

Lasciamo che il progetto che è dentro di noi ci parli. Ci parli con il suo linguaggio, attraverso i sogni, attraverso gli imprevisti che accadono, portatori di un loro messaggio: lasciamo che il simbolo parli alla parte di noi che si rifiuta di catalogarlo. Cerchiamo di essere nudi quando entriamo nella stanza dei misteri. Solo così potremmo riconoscere quello destinato a noi.

 



[1] L. Zoja (1943 – vivente) è stato presidente dell’Associazione internazionale di psicologia analitica (IAAP), è stato docente presso il C.G. Jung Institute di Zurigo e Presidente del Centro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA). Attualmente presta la sua attività di psicoanalista a New York negli USA.

[2] L. ZOJA, Nascere non basta, Milano. Raffaello Cortina, 2003

[3] Ibidem. 159

[4] R. GUARDINI, Le età della vita, Milano. Vita e Pensiero, 1992. 102

[5] R. Guardini è stato filosofo e teologo. Ha insegnato in Germania,  prima come libero docente di Dogmatica cattolica a Bonn e a Breslau e poi ricoprendo la cattedra di Filosofia della religione e Weltanschauung cattolica a Berlino, a Tubinga e infine a Monaco di Baviera.

[6] R. GUARDINI, Le età della vita, Milano. Vita e Pensiero, 1992. 82

[7] In questo scritto (raccolto in Opere, Vol VIII, Milano. Boringheri, 1996. 415 – 432) Jung descrive la sua esperienza sulla evoluzione psicologica dell’uomo. Lo cita J. CAMPBELL in Jung, scritti scelti, Milano. Edizioni Red, 2007.

[8] Ibidem. 5

[9] Ibidem. 5

[10] Ibidem. 6

[11] R. A. SPITZ, Il primo anno di vita, Milano. RCS Libri Spa, 2007. 45

[12] J. CAMPBELL, Jung, scritti scelti, Milano. Edizioni Red, 2007. 6

[13] Ibidem. 7

[14] J. CAMPBELL, Jung, scritti scelti, Milano. Edizioni Red, 2007. 11

[15] Ibidem. 16

[16] Ibidem. 21

[17] Cfr. OSHO, La maturità, Milano. Edizioni Riza, 2005.

[18] Il termine vanprasth, indica “colui che volge lo sguardo verso l’Himalaya, verso la foresta. Colui che ha voltato le spalle alla piazza del mercato, alle ambizioni, ai desideri e a tutte le cose del mondo.” (tratto da:

  OSHO, La maturità, Milano. Ed. Riza, 2005. 64)

[19] Osho (1931 – 1990), al secolo Rajneesh Chandra Mohan Jain è stato un filosofo e un maestro spirituale indiano. Ha insegnato Filosofia, all’Universtità di Jabalpur-India, prima di ritirarsi dall’insegnamento accademico e dedicarsi alla divulgazione delle sue pratiche spirituali.

[20] OSHO, La maturità, Milano. Ed. Riza, 2005. 65

[21] R. GUARDINI, Le età della vita, Milano. Vita e Pensiero, 1992. 99

[22] OSHO, La maturità, Milano. Ed. Riza, 2005. 30

[23] U. GALIMBERTI, Dizionario di Psicologia,  Bergamo. Gruppo Ed. L’Espresso, 2006. 510

[24] H. DEUTSCH, Psicologia della donna, Torino. Bollati Boringheri, 2003

[25] S. J .Bolen è una psichiatra e psicoterapeuta junghiana. Insegna Psichiatria all’University of California di San Francisco, e collabora come analista supervisore, con il C.G. Jung Institute di San Francisco.

[26] BOLEN S. Jean, Le  dee dentro la donna, Roma. Astrolabio 1991

[27] BOLEN S. Jean, Gli dei dentro l’uomo, Roma. Astrolabio 1994

[28] Per un approfondimento su queste figure mitiche, si veda ad esempio:

    P. GRIMAL, Mitologia, Milano. RCS, 2007 oppure

    A. FERRARI, Dizionario di mitologia, Milano. Gruppo editoriale l’Espresso, 2006

[29] Vedi nota precedente

[30] In una delle sue opere tarde,  Mysterium coniunctionis, in Opere, vol. XIV, tomo I e II. Torino, Boringhieri, 1989/90, Jung porta il suo contributo di lunghi anni di studio sull’alchimia, traslando alcuni termini, tipici dei processi alchemici, nel percorso di individuazione dell’essere umano. Individuazione quindi come processo alchemico che trasforma la sostanza grezza in sostanza nobile, il piombo in oro. Secondo l’autore, il processo di individuazione passa attraverso tre fasi. La prima, l’unio mentalis è rappresentato dallo stadio di assunzione di coscienza dell’ombra, passaggio che in questa fase è esclusivamente mentale. La seconda, la coniunctio oppositorum  rappresenta la capacità di trasferire le nuove conoscenze e consapevolezze acquisite nella prima fase, nella vita di tutti i giorni. E’ la fase in cui l’individuo integra la propria ombra e vive consapevolmente tutte le componenti della propria psiche. La terza è la fusione con l’unus mundus, anima e corpo, spirito e materia riunite assieme, superando le divisioni fittizie, in un movimento trascendente che ci unisce a tutto il creato. Le tre fasi possono essere paragonate per analogia alla tre fasi del processo alchemico: nigredo, albedo e rubedo (il corvo, il cigno e la fenice).

 

[31] La ierogamia (dal greco ιερογαμία, "matrimonio sacro") è un rito che simboleggia l’unione tra l’uomo e la divinità. In  una visione simbolica rappresenterebbe l’unione tra spirito e materia, tra anima e corpo.

[32] J. HILLMAN, Il codice dell’Anima, Milano. Adelphi, 2006. 19, 20

[33] J. HILLMAN, Il codice dell’Anima, Milano. Adelphi, 2006. 20, 21

[34] J. BRUNER, La mente a più dimensioni, Roma. Laterza, 2005. 15

[35] Ibidem. 17

[36] A cura di C. G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, Milano. Raffaello Cortina, 1983. 20,21

[37] A questo proposito basti ricordare l’esperienza di F. A. von Kerule, il chimico che ha scoperto la struttura ad esagono dell’anello benzenico, che racconta così la sua scoperta, dopo giorni passati a rifletterci sopra:  “Voltai la sedia verso il caminetto e mi assopii. Ed ancora gli atomi saltellavano davanti ai miei occhi. Questa volta i gruppi più piccoli stavano con discrezione sullo sfondo. Il mio occhio mentale, reso più acuto da ripetute visioni di questo tipo, riusciva ora a distinguere strutture più ampie, di varia conformazione; lunghe file, a volte più vicine l’una all’altra; tutte che si combinavano e si contorcevano con movimenti di serpente. Ma ecco ! E quello che cos’è ? Uno dei serpenti aveva afferrato la propria coda , e la forma piroettava beffarda davanti ai miei occhi. Come per un improvviso lampo di luce mi svegliai….Dobbiamo imparare dai sogni, cari signori”. (tratto dal sito: http://it.geocities.com/evidda/CREA.html 08/09/2008)

[38] P. Feyerabend è stato un filosofo e sociologo austriaco. Filosofo della scienza, nacque in Austria ed in seguito visse in Inghilterra, USA, Nuova Zelanda, Italia ed infine in Svizzera. Tra le sue opere principali ci sono Contro il metodo del 1975, La scienza in una società libera del 1978, Addio alla ragione (una collezione di saggi del 1987) e, pubblicato postumo nel 2002, Conquista dell'abbondanza del 1999. Feyerabend diventò famoso per la sua visione anarchica della scienza e il suo negare l'esistenza di regole metodologiche universali. La sua opera ha avuto una notevole importanza nella storia della filosofia della scienza e della sociologia della conoscenza scientifica.

[39] P. K. FEYERABEND, Contro il metodo, Milano. Feltrinelli, 2005. 15

[40] Ibidem. 17, 18

[41] Cfr. B. HEART, M. LARKIN, Il vento è mia madre, Vicenza. Ed. Il punto d’incontro, 2001

[42] Cfr. N. ARDEN, Gli spiriti africani parlano, Milano. Xenia, 2000.

[43] M. ELIADE, Lo sciamanesimo, Roma. Ed. Mediterranee, 1999

[44] Per un approfondimento sul simbolico nell’arte sacra cristiana, vedasi ad esempio. F. ZERI, Dietro l’immagine, Milano. TEA, 1990

[45] Nella tradizione induista, il ‘terzo occhio’ corrisponde al settimo chakra. I chakra (in sanscrito = ruota, vortice) sono dei centri simbolici che regolano il flusso di energia (prana o kundalini) che scorre attraverso il corpo. Il settimo chakra, presiede la visione interiore e quella extra-sensoriale.

[46] A cura di C. G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, Milano. Raffaello Cortina, 1983. 162

[47] Ibidem.  161

[48] J. HILLMAN, Il codice dell’Anima, Milano. Adelphi, 2006

[49] PLATONE (a cura di F. Sartori), La Repubblica, Roma, Laterza. 2007. 320

[50] J. JACOBI, La psicologia di C.G. Jung, Torino. Boringheri, 1973. 25

[51] Il concetto di sincronicità come lo espose Jung nel suo scritto La sincronicità, si rifà a degli eventi che non sono collegati tra loro da un meccanismo di causa-effetto ma da un nesso simbolico di significato. L’esempio più semplice può essere l’amico che ci telefona propria quando lo stavamo pensando. Ho il fatto di sognare un evento prima che questo accada. In generale potremmo dire che gli eventi sincronici mettano in collegamento la sfera psichica con il mondo esterno, slegati dalla dimensione spaziale e temporale ma fortemente collegati tra loro attraverso un linguaggio simbolico.